Spesso si tende a identificare il Salento con la provincia di Lecce, ma in realtà la penisola salentina, che si distingue fortemente dal resto della Puglia per paesaggio, cultura, architettura e lingua, si estende tra il canale di Otranto e il Golfo di Taranto, includendo la provincia di Lecce e parte delle province di Brindisi e Taranto.
Al contrario di molte altre zone d’Italia dove il dialetto è andato via via scomparendo, qui, per quanto ovviamente la massiccia scolarizzazione degli ultimi sessanta anni e non solo abbia influito a mitigarne la presenza, il dialetto salentino è fortunatamente ancora vivo, anche tra le popolazioni più giovani, e presenta chiaramente delle differenze sostanziali a seconda delle zone.
L’area meridionale della penisola italiana è innanzitutto considerata l’area più conservativa, che ha dunque mantenuto molte delle caratteristiche derivanti dal latino, e in questo panorama il Salento, l’estrema Calabria e la Sicilia, definite linguisticamente come “aree meridionali estreme”, sono le zone che meglio rappresentano questo stretto rapporto con la lingua degli antichi Romani.
Il punto sulla fonetica
Dal punto di vista fonetico, emerge chiaramente la differenza nel pronunciare alcuni gruppi consonantici: se nel resto del meridione si dice “quannu”, in salentino si dice “quandu”, o addirittura “quantu”, trasformando il gruppo consonantico “nd” in “nt”, rendendo dunque il suono più forte.
Ancora più singolare risulta essere poi la pronuncia delle consonanti “dd” e “tr” che in salentino presentano una caratteristica detta cacuminale, che le trasforma come si evince dalla pronuncia di parole come “iddrhu”, “quiddhu”, “quattrhu” e così via.
Ultimo fenomeno da considerare dal punto di vista della pronuncia è la cosiddetta epitesi, cioè l’aggiunta di un corpo fonico in fine di parola quando essa è tronca, ovvero quando l’accento cade sull’ultima sillaba; “addune”, “cine”, “percene”, “none” sono solo alcuni dei tanti esempi.
Il punto sulla morfologia e sulla sintassi
Alcuni sostantivi che in italiano sono maschili, in dialetto salentino sono femminili e viceversa, abbiamo quindi “il capo”, in italiano sostantivo maschile, che in salentino diventa “la capu” o ancora “l’ape”, in italiano sostantivo dal genere femminile, che diventa “l’apu”. Questa risulta essere un’influenza morfologica proveniente dal sostrato greco, ovvero dalla presenza di caratteristiche derivanti dal greco antico di cui sono rimaste tracce o dai tempi della Magna Grecia o dai tempi dei Bizantini; ciò che appare singolare è che queste parole abbiano comunque preso una forma latina, ma genere greco.
Altro aspetto che sembra ricondursi ad un influsso greco è una sorta di superlativo che si innesca con la ripetizione di alcuni aggettivi o avverbi e alle volte anche sostantivi, con lo scopo quindi di rafforzare il concetto: “culuni culuni” o “chianu chianu” e ancora “la cima cima”, per indicare il fior fiore.
Particolare risulta essere il rapporto che intercorre tra il dialetto salentino e l’infinito, che è poco presente se non in costruzioni particolari. Anche verbi come volere, sapere, lasciare che in italiano reggono il verbo all’infinito, in salentino prediligono l’utilizzo di una subordinata esplicita: “voglio dormire” diventa dunque “ogghiu (cu) dormu”, e ancora “volete venire?” si trasforma in “uliti (cu) benniti?”. Questa regola tuttavia, così come tutte le altre descritte, ha diverse applicazioni, non è, infatti, raro sentire “sai natare?” per dire “sai nuotare?”, utilizzando dunque l’infinito; man mano che dal basso Salento si sale, infatti, verso Brindisi le caratteristiche salienti tendono ad affievolirsi.
Il punto sul lessico
Il dialetto salentino è, tra i tanti, quello che presenta più parole derivanti dal latino; alcune parole hanno conservato il loro significato originale, come “crai” , “domani” in italiano, che deriva dal latino “cras”; altre, invece, hanno assunto un altro significato come il sostantivo di base latina “canna” che è passato all’italiano con lo stesso significato, ma in dialetto significa “collo”, “gola”.
Il greco ha fatto sentire la sua influenza anche sul lessico, vi sono, infatti, dei termini di chiara origine greca, come “cuccuvascia” (in italiano “civetta”), o ancora “pittula”.
Non mancano parole di origine germanica come “pauta”, “tasca” in italiano; o prestiti dall’arabo, probabilmente diffusi attraverso la Sicilia, o attraverso il latino in era medievale, come “cupeta” o ancora “tamarru”, persona grezza. Certo non si fanno attendere i francesismi o ancora le parole di origine spagnola, infatti, abbiamo tra i tanti “buatta”, “trainu” derivanti dal francese, e “uappu” (in italiano, “spaccone”), o ancora “truppicare” (verbo che in italiano significa “inciampare”) che provengono dallo spagnolo.
Un dialetto quello salentino ancora vivo e fortemente diversificato al suo interno, tanto che sarebbe più giusto parlare di “dialetti salentini”, visto che man mano che ci si avvicina al confine tra Salento e resto della Puglia vi sono delle caratteristiche molto differenti. Il territorio brindisino e quello tarantino appaiono quindi come una sorta di terra di mezzo, che sente un po’ dell’influenza dell’area nord pugliese, ma comunque di matrice salentina.
Per quanto ancora presente e vivo, si tratta comunque di un dialetto che va verso l’italiano, affievolendo i suoi tratti tipici e perdendo dunque un po’ di colore. I giovani salentini, infatti, come abbiamo detto, conoscono il dialetto, lo usano non più massicciamente come avveniva in passato, ma solo in contesti familiari, e chiaramente lo epurano in linea di massima da tutte quelle caratteristiche molto marcate, come i suoni cacuminali di “quiddhu”, “quattrhu” e così via.
Informazioni tratte da A. A. Sobrero – I. Tempesta, La Puglia, 2002, Edizioni Laterza
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