i bambini migranti da cui l’Italia difende i suoi confini

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Guardateli bene perché è sulla loro pelle che si scatena ora la rincorsa tra Meloni e Salvini a chi sa fare la guerra più feroce agli invasori. Gli invasori hanno le facce che vedete qui sotto. E un mese di vita. Oppure otto anni e sono già stati nei lager libici, deportati da motovedette fornite dal governo italiano. O quindici e in Libia hanno fatto da interpreti ai carcerieri

Ecco da chi l’Italia difende i confini. La foto segnaletica dell’invasore la trovate qui sopra. Lui ha un mese di vita, l’ha sbarcato a Ravenna martedì scorso l’Ocean viking, la nave di soccorso della ong Sos mediterranée. Nei barchini stracolmi di persone, cespugli di gambe e braccia nere in mezzo al mare Mediterraneo, gli equipaggi delle ong di ricerca e salvataggio trovano sempre molti bambini. Tanti tra loro viaggiano da soli. Nel 2024 sono arrivati in Italia 7.906 minori non accompagnati.

***

Dov’è la tua mamma? “In Mali”. Il tuo papà? “In Mali”. E in Libia come ci sei arrivato? “Da solo”. Ha 8 anni. Era insieme ad altre 87 persone, tra cui 24 minori, in un tender verde alla deriva da tre giorni in acque internazionali al largo di Tripoli. L’abbiamo soccorso il 14 marzo scorso con i gommoni a punta rigida della Ocean Viking – ero a bordo per l’Unità come testimone – mentre si avvicinava a tutta velocità un gommone dei miliziani libici. È un bambino molto intelligente, si chiama Oumar. Dice di essere partito dal Mali con un amico. Come ha fatto ad arrivare in Libia non si capisce. Lui dice di aver lavorato cammin facendo per procurarsi un po’ di soldi. Dice di aver lavorato in Libia come saldatore e come imbianchino. E di aver dormito per strada. Alla domanda: “Era difficile vivere in Libia?”. Risponde tranquillo: “Sì, perché sono nero”.

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Dice di aver sentito a Tripoli di questi gommoni che portano di là dal mare e di essersi imbarcato già una volta. Dice che quella volta è arrivata una motovedetta della Guardia costiera libica, li ha riportati indietro e li ha messi tutti in prigione. Dice il nome della prigione: Ain Zara. Che esiste ed è un inferno. Dice di essere scappato da lì insieme a due adulti che un giorno l’hanno fatto uscire con loro insieme alla spazzatura. Non si capisce se e come abbia pagato il passaggio per l’Europa. Un ragazzo imbarcato nello stesso gommone dice di aver pagato il viaggio per sé 1.000 dollari. Tutto quel che Oumar racconta di come è arrivato in Libia sembra incredibile, ma gli adulti tirati fuori dal suo stesso gommone confermano che l’hanno visto arrivare da solo e che viaggiava da solo.

Uno di loro, che ha tentato la traversata sette volte e tutte le altre volte è stato intercettato dai libici e riportato a terra, dice di aver visto Oumar in galera. Di ricordarselo benissimo proprio perché è un bambino, di ricordare che c’è stato poco e di averlo subito riconosciuto poi quando l’ha rivisto fuori. Conferma che era da solo, di averlo visto sempre da solo. Oumar parla un po’ di francese e il bambarà, una delle lingue del Mali. A scuola c’è stato perché la disegna piena di bambini, sa scrivere. Dice che in Italia vuole fare il saldatore. Quando in mezzo al mare abbiamo fatto il trasbordo dei naufraghi dal loro gommone a quello di salvataggio, lui è stato il più veloce di tutti. Ha capito subito cosa doveva fare, mi ha aiutato a far stare altri tre bambini seduti e afferrati alle cime.

Quel salvataggio è stata un’operazione drammatica, dal ponte di comando della Ocean Viking la radio avvisava che i miliziani stavano arrivando. “Visitors are coming in three minuts”. “Visitors are coming in two minuts”. C’era pochissimo tempo per fare il trasbordo. Quando la motovedetta libica è comparsa, ha puntato la prua verso il gommone di salvataggio e un miliziano è uscito, i naufraghi erano terrorizzati. Oumar ha abbassato la testa, muto e non s’è mosso. Tremava. Ha continuato a tremare fino alla nave.

Quelle motovedette ai libici gliel’ha date il governo italiano. Servono a deportare i profughi, non a far salvataggi. E una di queste motovedette, date dal governo italiano, una volta ha caricato a forza Oumar in mezzo al mare, l’ha riportato in Libia e l’ha fatto finire nelle celle luride di Ain Zara, a 8 anni. Ora Oumar è in una piccola casa famiglia dove racconta di stare molto bene, è felice di andare a scuola e ieri pomeriggio ha conosciuto la neve.

***

Ha 15 anni. Dal Sudan è partito da solo cinque anni fa. Lo chiameremo W. A 10 anni il papà gli ha messo in mano i soldi che aveva per dare a quel bambino così sveglio, che parlava già così bene inglese, la possibilità di cercare un futuro in Europa. Lui di quel papà che l’ha lasciato partire verso nord fino all’inferno della Libia parla con la gratitudine di un adulto. È una notte di fine maggio, W. corre verso la poppa della nave Humanity1 dove sto raccogliendo storie per l’Unità, il ponte è pieno di naufraghi appena tirati su da gommoni alla deriva al largo di Tripoli. Lui è uno dei ragazzini dell’ultimo salvataggio. Fa lo slalom tra le coperte grigie in cui sono avvolti i maschi adulti a poppa. Non ha sonno. È preoccupato per sua madre.

“Lei è in un campo profughi, l’ultima volta che sono riuscito a parlare dalla Libia è stato 4 anni fa. Io la voglio andare a prendere, la voglio ritrovare dall’Europa, c’è qualcuno in Europa che mi può aiutare a trovarla? Voglio lavorare, mandarle soldi perché possa comprarsi l’acqua, sennò lì non può bere, e poi andarla a prendere. Poi insieme a lei voglio tornare in Sudan, salvare i miei fratelli, cercare il mio papà e salvare anche il Sudan. nel frattempo io voglio lavorare in una nave che salva le persone in mezzo al mare, posso farlo? Non sono piccolo, avete visto come so tradurre in arabo dall’inglese? Serve qui un interprete non è vero?”. Non sono passati nemmeno due giorni da quando W. è stato tirato su disidratato e fradicio di combustibile e acqua di mare dai soccorritori della ong tedesca Sos Humanity e lui questo chiede: vuole lavorare.

L’inglese l’ha salvato nei lager libici dove è finito due volte. “Non mi hanno ucciso perché gli servivo per tradurre. I libici prendevano i prigionieri e li torturavano, poi chiamavano col telefono del prigioniero la famiglia per fargli sentire le urla. Ma loro non sanno l’inglese e non sapevano dire nulla. Quindi gli servo, facevo io da interprete tra l’arabo e l’inglese”. Questo ha visto lui, a 15 anni. Sorride: “A me m’hanno messo in prigione quando mi hanno trovato in mare in un gommone. Io la seconda volta sapevo già tutto, sapevo che dovevo stare molto attento a non impazzire perché se vedono che impazzisci o ti sparano in testa (si punta due dita alla tempia) oppure ti portano nel deserto e lì muori di sete: allora io quando sentivo che non sopportavo più chiudevo gli occhi e pensavo, pensavo, pensavo così mi ricordavo che sapevo pensare e così non impazzivo”.

W. appena salito a bordo della Humanity 1 non ha capito subito di essere in salvo. S’è proposto subito per tradurre dall’arabo all’inglese, voleva rendersi indispensabile mentre studiava la situazione per capire come muoversi. “Al mondo le persone sono tanto diverse. Vedi le dita di questa mano?” domanda. Apre la mano e la mette sotto la luce arancione della lampada riscaldante accesa a poppa. “Le persone sono tutte diverse come le dita della mano, i libici quando ci hanno preso in mare ci hanno imprigionato, menato, mi davano un dito d’acqua sporca e poi ci tiravano un piatto per tutti. Io che sono più piccolo non mangiavo quasi mai. Voi mi avete dato subito tanta acqua, il tè nero con lo zucchero, lo posso pure prendere più volte e mi fate da mangiare tre volte al giorno sui piatti puliti per tutti, mi avete dato questa tuta nuova, siete diversi”. Provo a dire che quelli erano carcerieri e noi persone che lo hanno soccorso per aiutarlo. Mi interrompe: “Sì, io la differenza ora l’ho capita, ma all’inizio non lo sapevo”.

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Del Sudan non vuole raccontare, è passato tanto tempo, dice. Si capisce soltanto che la sua famiglia non era poverissima, probabilmente borghese, che anche i suoi parlano altre lingue oltre l’arabo e che nella città dove viveva erano molto temuti degli uomini che non si potevano nemmeno nominare per timore di essere sentiti e allora lui e i suoi amici per riferirsi a loro, considerandoli forti, troppo forti, imbattibili, li chiamavano “l’Arsenal”, come la squadra di calcio.

***

Sul ponte della stessa nave, tra i soccorsi nella stessa missione di salvataggio, c’è un ragazzo di diciassette anni della Guinea. Fino a dieci giorni prima di rimanere alla deriva davanti alla Libia non sapeva nemmeno cos’era il mare. Non l’aveva mai visto. Non sa cos’è l’Europa, non voleva nemmeno partire. Anche lui è solo, la persona più sola che abbia mai incontrato in vita mia. Non ha nessuno in Africa, non ha nessuno in Europa. Non conosce nessuno sulla faccia della terra. L’unica persona che conosce è un ragazzino, anche lui minorenne, che stava accanto a lui nella barca alla deriva e che parla inglese.

Ci chiudiamo nella clinica di bordo: c’è lui con un asciugamano avvolto in testa che ogni tanto lascia scendere a coprirgli le lacrime e il suo amico con un te’ caldo che nessuno berrà. I due ragazzi si siedono su una barella rigida al centro della stanza bianca. Lui parla sempre a voce bassa, guarda solo gli occhi del ragazzino che traduce o le ciabatte ai suoi piedi. Solo alla fine, quando apriremo la porta di ferro per uscire sul ponte, alzerà gli occhi portandosi le mani sul cuore senza sorridere.
Morti i genitori, sono rimasti lui, la sorellina e l’ultima nata di pochi mesi. Da soli. “Witches”. Colpiti da una stregoneria, considerati tali perché orfani, perseguitati. L’unica via d’uscita è scappare. Scappano. Lui non sa quanti anni avesse, forse 6, forse meno.

Dice che nel cammino un ragazzo grande si innamora di sua sorella, si chiama Boubakar e parla bambarà, è del Mali, le chiede di accompagnarlo in Libia, di andare lì insieme a vivere. Lei accetta, a condizione che vengano anche i fratelli. Boubakar dice di sì. Di quel lungo viaggio a piedi lui ricorda solo che la bambina piccola nel deserto è morta, che la sorella l’aveva in braccio, che non aveva come allattarla e che “la bambina era diventata fredda”. Lasciarla, “bisognava lasciarla e continuare a camminare”. La porta è chiusa, fa caldo. La sua voce fa continue retromarce, moltiplica le pause, come se non volesse arrivare alla fine, come se avesse paura di arrivarci. Paura di sentirlo arrivare alla frase che uccide, ce ne saranno almeno dieci in un’ora di racconto, una discesa lenta in un dolore senza fine.

Vengono presi e portati in un campo di ribelli in Algeria. Portano via la sorella, dall’altra parte del campo. Lui la sente strillare, la sente gridare aiuto. Boubakar e lui sono prigionieri. “He said he was a child, so young, too young”, ad ogni frase il suo amico che traduce premette sempre queste parole: “lui dice che era troppo piccolo”. Lui la sentiva strillare, la voleva aiutare, “non poteva difenderla perché lui era così piccolo”. Abbassa la testa, non vuole bere, non vuole uscire, non vuole fermarsi, vuole dire cos’è successo dopo. Racconta che rilasciano la sorella, che lei gli corre incontro, lui la vede e corre da lei “e quando l’abbraccia è pieno di sangue, non sa se è di lui o della sorella, lei è piena di sangue, lui e lei sono pieni del loro sangue, he was so young”. Li lasciano andare. Tutti e tre, lui, sua sorella e Boubakar. Lei muore. “Dice che non ci credeva che era morta, diceva che pensava che dormiva, ma gli occhi erano aperti” dice in inglese il ragazzino che traduce da bambarà.

Lui e Boubakar arrivano insieme in Libia. Boubakar sa dipingere. Lavorano insieme come imbianchini. Dice che Boubakar lo portava con sé, lui gli stava accanto e gli apriva e chiudeva i barattoli della vernice. Quanti anni avevi quando sei arrivato in Libia? Lui non lo sa, forse 9, forse meno. “He grew up in Lybia”. È cresciuto lì. Con Boubakar che gli dava soldi da mettere da parte per sé. Lui sapeva dove Boubakar nascondeva i suoi. Un giorno l’amico non torna. Lui aspetta, una notte, due notti. Chiede aiuto ad altri neri. Boubakar è stato preso ed è in carcere. Gli dicono quale. Chiede che qualcuno lo accompagni lì. Gli mostrano i fucili. Poi uno gli dice di portare soldi, che se li porta liberano il suo amico. Lui va a prenderli. Boubakar non tornerà mai. Gli dicono che è morto. Lui non sa dove andare. Rimane dov’è. Passano mesi, continua a imbiancare pareti. I soldi che guadagna li fa custodire a un negoziante sotto casa.

Parla con una voce sempre più bassa, ma senza pause. Le parole escono con impeto, come se gli bruciassero dentro. “Il negoziante muore e il fratello di lui gli ruba tutti i risparmi. Quando glieli chiede indietro mostra una pistola e dice: sei nero, se me li richiedi ti ammazzo, vattene”. Un libico che viveva lì accanto gli fa una proposta: vieni da me e mi finisci questo lavoro, se lo fai bene ti faccio un regalo. Lui non aveva dove andare, va e gli imbianca tutte le pareti. Il libico una sera gli dice: domani parti per l’Europa. Lo porta di notte vicino a una spiaggia, lo lascia dentro lo stanzone e se ne va. Quando li fanno uscire per imbarcarli sul gommone lui torna indietro, in fondo alla fila, ha paura del mare, non l’ha mai vista tanta acqua, non vuole andare.

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“S’è seduto in mezzo, è sempre stato a testa bassa per non guardare”. Quando in mezzo alle onde ha visto tutti piangere e gridare perché il motore era rotto dice che era sicuro di morire. “Poi quando è comparso un gommone e tutti dicevano ‘aiuto’, ‘la guardia libica’, lui ha sollevatogli ochi, ha visto quello grande con la grande barba e ha pensato che era Boubakar che non era morto ed era venuto a prenderlo”. Forse era Rocco Aiello, il capomissione della Humanity1, in piedi sul gommone di salvataggio. È l’ultima sera prima dell’arrivo. Tutti stanno bevendo tè caldo, alcuni ballano. Lui no. È seduto su una panca, spalle al mare. Guarda serio, fa un cenno di saluto senza sorridere.

È a ragazzi come lui che noi, che siamo l’Italia – quando non li rinchiudiamo in galera, quando non li accatastiamo come sacchi vuoti nei centri per il rimpatrio, quando non li trattiamo da invasori – chiediamo di comportarsi nelle nostre città come ospiti discreti molto ben educati, di stanziarsi possibilmente lontano dalle nostre case, di parlare negli autobus solo a bassa voce. Per non disturbarci.



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