Globalizzazione, no alle diseguaglianze: l’intervento del prof. Nerozzi al campo dell’Opera La Pira

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Il Campo e tutte le attività connesse si sono svolte nel pieno rispetto delle disposizioni e delle normative predisposte dal governo e dalla Regione Toscana per la tutela della salute. L’intervento del professore nasce dalla necessità di trattare ed approfondire il tema del campo fornendo ai partecipanti anche degli strumenti tecnici per sviluppare insieme una discussione (che è stata molto apprezzata e partecipata), e si inserisce nel contesto della collaborazione tra Opera per la gioventù Giorgio La Pira e Associazione Amici dell’Università Cattolica dell’Istituto Toniolo di Studi Superiori.

Ecco, di seguito, un abstract dell’intervento per prof. Nerozzi

Centro e periferia costituiscono le due facce della globalizzazione. Attività economiche, investimenti, infrastrutture fisiche e digitali, servizi per imprese e famiglie, innovazioni, tendono a concentrarsi in alcuni luoghi e territori, alimentando processi cumulativi di crescita economica, flussi migratori fra paesi e soprattutto all’interno dei singoli paesi: alcune città o territori, ben inseriti nelle catene globali del valore (Global Value Chains) e nei flussi internazionali di beni e servizi, diventano “centri” attrattori di popolazione e di risorse, mentre molte altre città e aree, spesso ricche di una storia millenaria, si impoveriscono e si spopolano diventando, talvolta inconsapevolmente, “periferie”.

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Le diseguaglianze territoriali si acuiscono e si intrecciano dunque con le diseguaglianze personali nella distribuzione del reddito, delle opportunità, degli standard di vita. Questo non significa che “centro” e “periferia” siano due polarità, positiva e negativa, in assoluto: i “centri” possono diventare luoghi sempre più frenetici, costosi, congestionati, inquinati e la recente crisi pandemica ha mostrato i rischi che ciò può comportare per la sicurezza sanitaria e anche per la stabilità economica. In periferia, al contrario, la qualità della vita può essere migliore, i ritmi meno frenetici, i rapporti sociali più intensi, il costo della vita più basso. Le nuove forme di smart working e di agile working sperimentate su scala molto ampia durante il lock-down possono aiutare a ridisegnare i confini e gli equilibri fra centri e periferie, rendendo più vivibili gli uni e le altre, con un impatto positivo anche sull’ambiente e sulla conciliazione fra lavoro e famiglia.

Affinché queste tendenze virtuose possano andare avanti e portare frutti duraturi, occorre però che ai processi “aggregativi” spontanei tipici della globalizzazione, si uniscano anche processi “diffusivi” deliberati e consapevoli: le periferie devono diventare capaci di attrarre nuove forze imprenditoriali ed umane, collegandosi ai flussi informativi e innovativi e producendo esse stesse innovazione (non solo cemento per quartieri residenziali destinati a perdere valore!). Processi virtuosi da costruire dal basso, con il concorso di molti attori pubblici e privati: cittadini, associazioni, comunità locali e imprese. Anche lo Stato può dare una mano, usando bene i fondi per investimenti “green” e “blu” messi a disposizione a livello europeo (i 750 miliardi di Next Generation EU). Una grande opportunità da non sprecare.

Ridisegnare i rapporti fra centri e periferie è essenziale per ridurre la diseguaglianza e la povertà, nei paesi sviluppati come in quelli emergenti e a basso reddito. Negli ultimi anni la globalizzazione ha creato ricchezza, lavoro e opportunità, migliorando lo standard di vita per miliardi di persone e riducendo la povertà monetaria: circa 800 milioni di persone, prevalentemente nei paesi emergenti, che prima vivevano con meno di 1,9 dollari al giorno, sono uscite dalla povertà estrema e altre hanno migliorato la loro posizione; anche gli standard di vita, l’accesso all’istruzione e alle cure sanitarie hanno avuto significativi avanzamenti. Tuttavia si è trattato di un processo che ha lasciato scoperti molti paesi e che è andato rallentando già prima della pandemia: la crisi del COVID, come denunciato a luglio dal Segretario generale dell’ONU, ha reso manifeste la lentezza, le carenze e la fragilità del percorso di avvicinamento ai 17 Obiettivi di Sviluppo del Millennio (SDGs). Anche i risultati ottenuti nella lotta alla povertà rischiano di fare un balzo indietro di un decennio. Le prime proiezioni ci dicono che gli effetti economici del lock-down stanno creando oltre 70 milioni di nuovi poveri, aumentando la denutrizione, peggiorando la condizione femminile, impoverendo molti paesi oggi già molto indebitati e riducendo le già risicate risorse per gli obiettivi di sviluppo.

Un’analisi dinamica della diseguaglianza personale del reddito a livello mondiale mostra una delle ragioni della lentezza e fragilità nel combattere la povertà e favorire lo sviluppo sostenibile: secondo i dati ricostruiti da Branko Milanovich fra il 1988 e il 2008 il 2% più ricco della popolazione ha beneficiato del 52% dalla nuova ricchezza prodotta a livello mondiale, lasciando al resto del mondo meno della metà della torta, e al 50% più povero solo il 10%: ciò significa che per far sì che un individuo rappresentativo della metà più povera della popolazione mondiale (e di molti lavoratori nei nostri paesi) possa avere un dollaro di reddito in più, un super-ricco deve poter guadagnare 130 dollari in più. In termini aggregati affinché la metà più povera della popolazione mondiale possa avere un dollaro in più di reddito (3,5 miliardi in tutto), la produzione e il consumo globale devono crescere di 35 miliardi di dollari, di cui oltre la metà (18 miliardi) andranno ad una élite di circa 140 milioni di super-ricchi.

La globalizzazione, dunque, porta sì benefici all’umanità, ma in modo decisamente inefficiente, squilibrato e instabile: se questi benefici fossero un po’ più diffusi, il passo dello sviluppo sarebbe più rapido e sicuro. Ma anche l’ambiente ne guadagnerebbe perché la produzione e il consumo di beni e servizi necessaria a portare sviluppo e lavoro a gran parte dell’umanità sarebbe minore.

L’esperienza di due secoli di sviluppo industriale ci dice che un po’ diseguaglianza è necessaria per la crescita economica perché premia i talenti e coloro che si impegnano di più, creando i giusti incentivi all’innovazione, al lavoro, al risparmio: ma troppa diseguaglianza rischia di bloccare la mobilità sociale e alimentare le rendite di posizione, creando “trappole della povertà”, bolle finanziarie e crisi economiche, insieme (come abbiamo visto) a centri congestionati e periferie sempre più marginali. Soprattutto, in un mondo dai confini limitati, l’estrema diseguaglianza rischia di far deragliare il treno della crescita economica dai binari, sempre più stretti, dello sviluppo sostenibile. Occorre rimettere il treno nei binari, possibilmente prima della prossima curva: ridurre l’”impronta ambientale” del Pil che produciamo (grazie alla tecnologia e alle innovazioni), ma soprattutto aumentarne il valore umano e sociale, riducendo la necessità di crescere a ritmi fisicamente insostenibili.

Un cambiamento di rotta richiede la correzione dei meccanismi fiscali, finanziari, produttivi che generano l’attuale diseguaglianza. Studi, analisi e proposte non mancano. Serve il coraggio di attuarli davvero.

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