Scontro Meloni-Salvini. Il piano per spostare Piantedosi al Dis

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Nonostante sia ancora in visita ufficiale all’estero – prima in Lapponia e poi in Lituania in visita al nostro contingente militare – la premier Giorgia Meloni è inseguita dal ribollire della politica interna in Itali

Se l’assoluzione nel processo Open Arms di Matteo Salvini le ha risparmiato la difesa d’ufficio contro i giudici, l’effetto opposto è stato di rinfocolare le ambizioni del vicepremier. Prima in piazza a Roma e poi a Milano, infatti, Salvini ha esplicitato il suo desiderio di tornare al Viminale, ora che su di lui non pende più la spada di Damocle dell’inchiesta. Il leader leghista gioca coi giri di parole, ma il messaggio è chiaro: «Occuparsi della sicurezza è qualcosa di bello» e «se qualcuno in passato poteva dire “Salvini non può andare agli Interni perché c’è un processo in corso sulla sua condotta da ministro”, adesso questo alibi non c’è più». Infine si è anche sbilanciato: «Sto bene dove sto», ma «poi parlerò con Giorgia e con Matteo» Piantedosi, attuale ministro e suo ex braccio destro proprio nel governo giallo-verde che approvò la stretta sui migranti con i decreti sicurezza.

Che quella di Salvini sia più che un’ambizione ma un vero e proprio progetto politico, a Meloni è subito risultato chiaro. Secondo fonti di governo, il leghista vorrebbe convincere la premier a spostare Piantedosi al Dis, il dipartimento per le informazioni di sicurezza oggi diretto da Elisabetta Belloni e in scadenza tra pochi mesi. Del resto, sarebbe la tesi di Salvini, Piantedosi era già stato preso in considerazione per quel ruolo di prestigio e così Meloni guadagnerebbe anche un ministro in più per FdI, da collocare ai Trasporti.

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Accattivante, ma da FdI si conferma che nella testa della premier l’ipotesi non sia nemmeno presa in considerazione.

Infatti, a chi le ha posto la domanda durante la conferenza stampa in Finlandia ha risposto con un lapidario «sia io che Salvini siamo contenti del lavoro che svolge l’ottimo ministro dell’Interno» Piantedosi. Del resto, la premier non vuole sentire parlare né di rimpasti che la costringerebbero a una difficile interlocuzione con il Quirinale (che per primo aveva posto il veto sulla nomina di Salvini al Viminale al momento della formazione del governo) né di valzer ai ministeri, che solleticherebbero gli appetiti degli alleati. «Tutto deve rimanere così come è», è il mantra che si ripete in Fratelli d’Italia.

Adesso l’obiettivo è quello di archiviare le schermaglie post-sentenza di Palermo e rimettere a fuoco gli obiettivi del governo più che i desiderata del vicepremier. In particolare in materia migratoria.

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Del resto, i fatti che hanno prodotto l’indagine a carico di Salvini sono più che superati. Ora le navi Ong non vengono più bloccate in mare, ma al massimo dirottate verso altri porti: una forma di disincentivo che le organizzazioni umanitarie denunciano, ma che evita cortocircuiti come quello del caso Open Arms.

Al centro dell’agenda del governo, infatti, c’è la vera scommessa di Meloni in materia di gestione migratoria: i centri per i rimpatri in Albania, oggi vuoti e oggetto di vari pronunciamenti giudiziari da parte dei giudici italiani. Sul loro utilizzo e sulla definizione di “paesi sicuri” di provenienza dei migranti che lì dovrebbero essere portati pende una decisione della Corte di giustizia dell’Ue, attesa per la primavera.

Intanto, però, Meloni è decisa a difendere la sua scommessa: lo ha ripetuto sia ad Atreju che alla Camera, «i centri in Albania funzioneranno». Già oggi riprenderà il filo del progetto, con un vertice «per vedere come procedere» insieme al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, il ministro della Difesa Guido Crosetto, il ministro per gli Affari Ue Tommaso Foti, il sottosegretario Alfredo Mantovano e il consigliere diplomatico Fabrizio Saggio.

La speranza del governo italiano, infatti, è che «le regole del nuovo Patto europeo sulle migrazioni e l’asilo aiutino ad affrontare il problema», ha detto Meloni, ma «devono esserci risposte migliori sui rimpatri». Entro marzo dovrebbero venire approvate nuove norme sui Paesi sicuri (la questione che ha indotto i giudici italiani a non convalidare i trattenimenti in Albania) e l’esplorazione delle cosiddette «soluzioni innovative», ovvero i modello dei centri in Paesi terzi. «Bisogna pensare fuori dagli schemi: l’Italia è stata la prima a fare un accordo con un Paese extra Ue, stiamo avendo qualche problema nell’interpretazione delle regole ma lo stiamo superando», ha assicurato la premier. In realtà, la strada sul fronte giuridico appare tutt’altro che spianata.

Meloni ha infatti fatto propria una sentenza della Cassazione, che in realtà ha dato torto al governo perché ha stabilito – in linea con quanto fatto dal tribunale di Roma – che i giudici possono disapplicare in via incidentale il decreto ministeriale contenente la lista dei Paesi sicuri. La premier ha però enfatizzato la seconda parte della sentenza che, secondo lei, «ha sostanzialmente dato ragione al governo italiano sul fatto che è diritto dei governi stabilire quale sia la lista dei Paesi sicuri, mentre i giudici possono entrare nel singolo caso rispetto al paese sicuro ma non disapplicare in toto». Sfumature giuridiche, che tuttavia lasciano inalterata l’attesa per la pronuncia dei giudici europei.

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A loro Meloni si era indirettamente rivolta in Aula, chiedendo che non avallino le «sentenze italiane dal sapore ideologico» che «rischierebbero di compromettere i rimpatri da tutti gli Stati membri». Segno che il timore che qualcosa vada storto, facendo crollare quello che è ormai il progetto simbolo del governo, c’è.

Eppure questa è la grande scommessa politica di Meloni, che non tollera interferenze. Men che meno dal leader della Lega, nonostante lui abbia già dimostrato di voler tornare ad occuparsi di migranti. Anche per questo un suo ritorno al Viminale è considerato fantascienza, dentro FdI. Certamente Sergio Mattarella non lo apprezzerebbe e con Piantedosi la premier ha coltivato un buon rapporto personale.  Soprattutto però significherebbe regalare al leghista spazio nella lotta all’immigrazione, capitalizzando i frutti del lavoro altrui in questi anni.

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