Keybox | Ilaria Ventura Bordenca

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Si chiamano keybox, e sono diventate simbolo della gentrificazione urbana. Cittadini e sindaci, già da tempo stufi e preoccupati dell’invasione di residenti a ore che si appropriano delle case del centro storico, sono intervenuti per vietarle. C’è chi le ha sabotate, chi le ha ricoperte di nastro adesivo rosso a mo’ di silenziamento, a Firenze sono state bandite, per iniziativa dell’amministrazione comunale, a partire dal 2025. Insieme alle cosiddette golf car, macchinine elettriche che servono a girare per i centri storici, spesso dominati da implacabili ZTL, e ai megafoni delle guide turistiche che declamano le meraviglie della cupola del Brunelleschi o di Palazzo Pitti. Questioni di decoro, si dice: le keybox, sorta di lucchetti elettronici che vengono appesi alle facciate degli edifici del centro, ne imbrattano le bellezze, i megafoni disturbano, le golf car sfrecciano e invadono vicoli e piazze, e chi un affitto lo cerca per davvero non lo trova, depredato da soste mordi e fuggi. In questi giorni è intervenuto anche il governo contro i lucchetti per turisti, perché teme problemi per la sicurezza. Soprattutto con il Giubileo alle porte.

Pensate per rendere autonomo e veloce il check-in da parte dei turisti, le keybox funzionano in modo tale che il cliente riceva dal gestore dell’appartamento, via mail o via SMS, un codice numerico da digitare su un lucchetto che si trova agganciato proprio nei pressi dell’ingresso della residenza temporanea: su una grata nella finestra accanto, sul portone, vicino a una pianta. Una volta inserito il codice, il lucchetto svela di non essere un vero e proprio lucchetto: non custodisce né la proprietà né i segreti. Chiude sé stesso. Si apre e contiene una chiave, quella dell’appartamento. Strane inversioni: la chiave sta dentro e non fuori – com’è di solito – non è lei ad aprire il lucchetto ma il contrario. Il gestore dell’appartamento, così, cede al sistema mail-keybox la scocciatura di attendere il turista, identificarlo e consegnargli le chiavi della casa della vacanza. Da cui i rischi di sicurezza temuti dal governo: meglio l’identificazione del turista de visu che la copia elettronica del documento mandata via mail da chissà chi. Insomma, meglio la cara reception con il portiere che sorride e scruta, seppur distrattamente, che il sistema tecnologico di codici elettronici che fanno al posto nostro.

In effetti, le keybox sono lucchetti ben strani: non sono fatti per nascondere, celare, custodire, ma per entrare. Il lucchetto, quello che tutti abbiamo almeno una volta posseduto per chiudere un cassetto, un diario, un armadio, separa ed esclude, è un operatore di divisione, produce segreti. È il contrario della chiave che invece apre e libera: stanno sempre insieme. Raccontano due storie inverse e parallele, perciò necessarie a generare tutte le altre storie: il lucchetto presuppone qualcosa di aperto e che va serrato, al contrario la chiave presuppone ciò che è già chiuso e va aperto. Certo, non solo apre, nel bene e nel male, ma la chiave chiude anche. Ha una natura duplice, può tanto mettere in comunicazione quanto vietare, ma, rispetto alla serratura – il lucchetto è in effetti una serratura portatile – la chiave rende possibile l’accesso, lo schiudersi delle cose, l’unione, cosa che il lucchetto non è progettato per fare. Essa funziona come operatore di collegamento solo a determinate condizioni, perché in primo luogo bisogna possederla. Che la chiave sia segno di potere è cosa nota. È il simbolo del papato, giusto per dirne una, ma anche dei piccoli poteri (si pensi ai portieri e ai custodi degli uffici, alle password sussurrate e cedute di nascosto o protette a ogni costo tramite altre password) ma è anche vero il contrario, e cioè che a volte è la chiave a esercitare potere, non tanto a livello simbolico ma a quello concreto delle cose agite. Bruno Latour ci ha scritto un intero articolo, uno dei più importanti e citati saggi della sua teoria della rete di collettivi sociali, intitolato proprio La chiave di Berlino. Quella chiave speciale, di cui il filosofo francese parlava per spiegare come si fanno le società tramite le cose, dotata di un doppio ingegno e progettata per una serratura ad hoc, forgiava il perfetto condomino: più che segno del potere umano, era la chiave stessa a esercitarlo, obbligando il condomino a compiere una serie precisa di azioni, una sequenza gestuale che aveva come scopo di garantire un dovere collettivo tanto noioso quanto necessario, ovvero tenere la porta aperta di giorno e ben chiusa la notte. E anche i portachiavi hanno un ruolo, non solo quello di raccogliere tutte insieme le chiavi più importanti – o pesanti – della nostra vita, ma anche di non farcele dimenticare da qualche parte che non sia la nostra giacca o la nostra borsa. Ancora Latour lo ha ricordato, a quanto servano i pesanti portachiavi degli alberghi, nel combattere la sbadataggine di noi clienti, nel rassicurarci che non c’è il rischio che ci ritroveremo la chiave della camera 506 dell’hotel Bellevue nello zaino in aereo al ritorno, o di fare una figuraccia con il portiere di notte. Temo sempre di perdere queste schede elettroniche che hanno sostituito la chiave tradizionale degli hotel e che hanno anche lo scopo di far funzionare le luci della camera solo quando la scheda è inserita nella fessura accanto alla porta: dalla serratura al pulsante, la chiave è diventata multifunzione.

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Le chiavi, infatti, sono cambiate molto, come ricorda Marco Belpoliti in Il tramezzino del dinosauro, ripercorrendone brevemente la storia materiale. Se prima erano lunghe e voluminose perché dovevano attraversare l’intero spessore di una porta per aprirla, è con il sig. Yale e l’industria meccanica statunitense di fine Ottocento che viene inventata la chiave che conosciamo adesso: corta e seghettata, funziona solo con il suo cilindretto. Ottima per casseforti delle banche e poi per le porte di ingresso delle case borghesi, ha preso il posto di quelle di un tempo, spesso dotate di un foro largo che aveva il preciso scopo di inanellarsi con altre da appendere alla cintola del proprietario. Di simili, ricorda Belpoliti, sono rimaste quelle delle porte interne di casa. Non sono fatte per essere portate via, piuttosto per separare alla bisogna e temporaneamente, dentro lo spazio domestico: ospiti e abitanti, grandi e piccini, primi pudori e anelati momenti di vera privacy (buco della serratura permettendo).

Non solo tutte le chiavi non sono uguali, dunque, ma neanche i lucchetti. C’è quello dell’armadietto della palestra o della biblioteca: più che lo spazio del segreto, esso tiene chiuso uno spazio proprio di genere strano perché temporaneo, un privato a ore. Oggi a te, domani a me, l’armadietto 303. Poco importa. Più importante forse il ruolo del lucchetto della bici o della moto: si fa grande e massiccio, accompagnato spesso da una pesante catena, con la sua materialità impedisce e blocca. Non è il privato temporaneo a essere difeso, ma la proprietà vera e propria. Il lucchetto qui non produce segreti e impiccioni, ma proprietari e ladri.

Il lucchetto turistico è il contrario dell’oggetto a cui siamo abituati a pensare: in linea di principio, non divide né custodisce, anzi facilita la condivisione, accorcia passaggi e tempi, accelera la rete di deleghe per far sì che il turista acceda velocemente all’appartamento che sarà suo per qualche giorno. Non ci sono strati di nascondimento, matrioske e inscatolamenti da svelare, combinazioni da scovare: è tutto esibito, su portoni anonimi o importanti, su finestrelle con tende e gattini affacciati, sotto i citofoni di chi in quei palazzi ci abita per davvero. È sotto gli occhi di tutti, il lucchetto che apre. Eppure, esso separa. I residenti dai turisti, le case private da quelle temporanee, il pubblico dal privato, gli stabili dai nomadi, ciò che è passeggero e ciò che si spera duri per sempre. Per niente segno di amori indelebili, come i lucchetti di quei famosi ponti per coppiette ottimiste, le keybox sono simbolo di passeggere passioni urbane, città usa e getta, amorazzi turistici per il weekend, fast tourism forsennato. Da qui, da queste passioni brevissime, derivano tutte quelle contrarie, le reazioni dei residenti, dei lavoratori, dei sindaci, che alla brevità oppongono la durata, che all’appropriazione temporanea e anonima, alla spoliazione, oppongono il senso della proprietà. Nascondere chiavi e lucchetti, passarle eventualmente di mano in mano solo a fidati custodi, può sembrare più decoroso.



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