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Banca d’Italia, migrazione: nel 2040 5,4 milioni di persone in meno in età lavorativa

Milano – In occasione della prima Mediobanca CSR Conference “Migrazioni e inclusione, l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati”, in programma oggi a Milano, l’Area Studi Mediobanca pubblica l’approfondimento “Gli impatti economici delle migrazioni: problema o risorsa?”. Lo studio, presentato dal direttore dell’Area Studi Mediobanca Gabriele Barbaresco, esamina i dati economici e sociali relativi ai flussi migratori e al loro impatto. Ad aprire i lavori e commentare le principali evidenze è stato l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, nel suo discorso introduttivo. A seguire, l’intervento di Filippo Grandi, alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e Chiara Cardoletti, rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, con un focus sull’impegno per l’integrazione dei minori non accompagnati. In conclusione, gli interventi degli enti del Terzo Settore con cui il Gruppo bancario collabora sulle tematiche di inclusione sociale con la tavola rotonda cui hanno partecipato Erasmo Figini, Fondazione Cometa, Fra Marcello Longhi, presidente Opera San Francesco per i Poveri, e Mariavittoria Rava, presidente Fondazione Francesca Rava. Il contesto internazionale della migrazione: tra buone pratiche e condotte fallimentari I trend demografici consolidati in molti Paesi occidentali, tra i quali l’Italia, mettono in luce da tempo diverse criticità: l’invecchiamento complessivo della popolazione, il suo calo e l’assottigliamento della quota in età lavorativa. A partire dal 2000, quando le Nazioni Unite hanno introdotto il concetto di ‘replacement migration’, i fenomeni migratori hanno assunto una nuova prospettiva: quella di possibile strumento compensativo dell’avverso quadro demografico e delle sue deleterie conseguenze economiche. Tuttavia, la semplice logica compensativa rischia di essere limitante, poiché da un punto vista economico sono assai rilevanti anche i profili qualitativi della migrazione. In primo luogo, la migrazione non è un fenomeno omogeneo, perché gli impatti dei flussi migratori variano notevolmente in base alle cause che li hanno prodotti: i migranti economici, che cercano attivamente di entrare nel mercato del lavoro, producono effetti diversi rispetto ai rifugiati, ai migranti familiari (ricongiungimenti) o a quanti non sono compresi nella forza lavoro, come i minori. Nell’ultimo decennio per le maggiori economie dell’UE che sono tradizionale destinazione degli immigrati (Italia, Francia e Germania, tra le altre), i permessi di soggiorno per motivi lavorativi sono stati il 15% del totale, contro il 40% di quelli legati a ricongiungimenti. Al contrario, i Paesi dell’UE a più recente vocazione di integrazione, vedono ampiamente prevalere i permessi lavorativi con il 57% del totale contro il 14% di quelli familiari. Già questo primo fattore pone importanti e specifiche sfide di corretta calibrazione delle politiche di integrazione in carico ai diversi Paesi. Le più recenti simulazioni prodotte dal Fondo Monetario Internazionale su base globale sono emblematiche. Se per i migranti economici esse stimano un incremento medio del PIL dell’1% a cinque anni dal loro ingresso, con riferimento ai rifugiati l’effetto è sostanzialmente nullo. L’aspetto che più di altri determina il segno e l’intensità dell’impatto economico è costituito dalle politiche di integrazione, sociale, linguistica e lavorativa, che consentono di valorizzare il capitale umano immigrato. Il caso dei rifugiati è sintomatico. Sempre secondo il Fondo Monetario, il loro modesto impatto economico sarebbe superato con l’adozione di politiche di integrazione che, a seconda della loro dimensione ed efficacia, potrebbero generare incrementi del PIL tra lo 0,6% e l’1,3% rispetto al modesto +0,15% conseguibile a politiche invariate. D’altra parte, il tema della migrazione è politicamente divisivo e ciò rende difficile la realizzazione di un’azione coordinata a livello comunitario. Le politiche d’integrazione, quindi, pagano, ma prima vanno pagate. Esse comportano cioè l’impiego di ingenti risorse finanziarie e il bilancio tra costi sostenuti e benefici prodotti diviene positivo solo dopo almeno un decennio. Esse, di conseguenza, presuppongono un adeguato spazio nei bilanci pubblici e un ceto politico, e relativo elettorato, pazienti. La logica di approccio non dovrebbe essere quella della spesa, ma dell’investimento che, nel lungo termine, garantisce adeguati rendimenti. Non mancano nel panorama internazionale modelli virtuosi. I Paesi europei che hanno ottenuto maggiori vantaggi economici dall’integrazione dei rifugiati sono quelli del Nord Europa, dalla Germania alla Danimarca fino alla penisola scandinava. Il ‘modello svedese’, in particolare, mette in campo avanzate politiche di integrazione che si completano con strutturate iniziative di partecipazione al mondo del lavoro di giovani e donne. È questo il mix vincente per contrastare la magnitudine della sfida demografica. Fuori dall’Europa, un altro Paese dotato di piani di accoglienza efficaci è il Canada. Per contro, modelli di ingresso troppo selettivi, che privilegiano solo il livello di formazione degli immigrati senza favorirne un flusso numericamente adeguato, sono fallimentari, come nel caso del Giappone. Se l’UE adottasse una combinazione delle politiche di integrazione di Svezia e Canada riuscirebbe a conseguire al 2060 un miglioramento dei propri indici di dipendenza, che esprimono la gravità dello squilibrio demografico, prossimo al 20%. Occupazione, istruzione, integrazione: il caso italiano Secondo le proiezioni dell’Istat al 2050, in Italia a fronte di un saldo naturale (nati meno morti) negativo per 360mila unità all’anno, vi sarebbe un saldo migratorio netto positivo per 195mila unità. Da un lato, insufficiente a produrre una piena compensazione, dall’altro comunque tale da più che dimezzare l’effetto della modesta natalità. E l’effetto sarebbe ancora maggiore se il nostro Paese non subisse a sua volta ampi flussi di emigrazione verso l’estero, valutati al 2050 in circa 145mila unità l’anno. In Italia la migrazione si confronta con dinamiche specifiche e spesso complesse. Banca d’Italia stima che nel 2040 potrebbero esserci 5,4 milioni di persone in meno in età lavorativa (15-64 anni), mentre la forza lavoro potrebbe calare del 9% e di altrettanto il PIL. Tuttavia, l’impatto economico non dipende solo dal numero di migranti, ma anche dalla qualità dei flussi. Ma da cosa dipende la qualità dei flussi? I migranti tendono a riflettere, o ad assimilare, le caratteristiche dei Paesi ospitanti. Il caso dell’Italia è in questo senso emblematico. I tassi di natalità degli stranieri in Italia, sono crollati da 24 nati ogni mille persone del 2014 ai 10 nati attuali, seguendo il trend dei nativi, passati da 9 nati a 6. Se quindi 10 anni fa la natalità degli immigrati era più che doppia rispetto a quella degli italiani, oggi il vantaggio si è ridotto al 65% circa. Ma non vi è solo un tema di assimilazione verso il Paese di destinazione, ve ne è anche uno di sua selezione. È infatti dimostrato che i Paesi con una popolazione nativa più istruita, tendono ad attrarre immigrati più qualificati. L’Italia non fa eccezione, ma purtroppo in negativo: ha la quota più bassa di immigrati con istruzione universitaria tra tutti i Paesi dell’UE (13%), coerentemente con il fatto che ha anche la seconda quota più bassa di nativi con istruzione terziaria (22%). Vi è tuttavia un aspetto che appare quasi paradossale. In Italia, infatti, le probabilità di un migrante e di un nativo di trovare occupazione sono pressoché le stesse, con lo scarto che è di soli 2,3 punti percentuali contro gli 8,3 punti della media europea. Come si spiega la combinazione di bassa formazione e alta occupabilità per i migranti in Italia? In Italia la probabilità per un migrante extra-UE rispetto ad un nativo di trovare un’occupazione a bassa qualifica è più alta rispetto al resto d’Europa, così come lo è quella di ottenere un impiego dequalificante, ovvero con requisiti inferiori rispetto alla formazione posseduta (overeducation). Media Relations tel. +39-02-8829 914/766 media.relations@mediobanca.com Di conseguenza solo il 14% dei migranti in Italia ricopre ruoli ad alta qualificazione, rispetto al 33% della media europea e a percentuali ancora più elevate in Paesi come Svezia (51%), Norvegia (47%), Danimarca (43%) ed anche Germania (34%). In sintesi, i migranti italiani appaiono segregati in mansioni a bassa qualifica, sia assoluta che relativa, rispetto alle competenze. Se da un lato le imprese ne conseguono vantaggi di costo e aumento dei profitti, dall’altro si generano anche inefficienze economiche significative: in Italia, infatti, un aumento dell’1% della quota di migranti extra-UE nel mercato del lavoro è collegato a una riduzione della produttività dello 0,5%. Tutto questo è in forte contrasto con la casistica internazionale che tende invece ad associare alla migrazione effetti positivi anche in termini di produttività. Per contro, l’adozione per l’Italia di un mix di politiche virtuose, ispirate ai modelli svedese e canadese, consentirebbe di abbattere al 2060 l’indice di dipendenza italiano in misura superiore al 40%, vincendo tutti i venti contrari della demografia. In conclusione, le politiche di integrazione appaiono come la strada obbligata per una piena valorizzazione del fenomeno migratorio, compreso quello dei migranti che hanno lasciato il proprio Paese con motivazioni diverse dalla ricerca di lavoro (ad esempio, i rifugiati). Esse richiedono costi rilevanti che, tuttavia, hanno la valenza di investimenti in grado di generare ritorni superiori ai costi che hanno comportato. Tuttavia, un punto rilevante è anche rappresentato dall’immagine che un Paese offre di sé. Essa infatti appare correlata alla qualità professionale dei migranti che il Paese riesce ad attrarre. Uno dei motivi di maggiore interesse per cui si auspica un approccio razionale da parte dell’Italia al tema della migrazione riguarda il fatto che quest’ultima, se correttamente governata, è in grado di portare un beneficio economico non solo contribuendo al contrasto dei trend demografici, ma anche favorendo lo sviluppo della produttività, uno dei principali nodi con cui il nostro Paese si confronta da ormai molti anni.



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