A coniare il termine è stato Elon Musk nel 2013: «Gigafactory», una parola per descrivere gli enormi impianti di produzione di batterie necessari per le sue Tesla, e i connessi sistemi di stoccaggio energetico. La parola ha fatto il giro del mondo. Così come gli impianti per alimentare le auto elettriche, nati ovunque. Ma non alla stessa velocità.
L’uomo che oggi è l’ombra del presidente eletto degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha iniziato a investire su questi centri nevralgici undici anni fa. La Cina più di cinque anni fa. L’Europa? Appena da un paio di anni.
Nel mondo si produce comunque più di quanto richiede il mercato. Nel 2022, ultimo dato disponibile dell’Iea (International energy agency), la domanda globale di batterie agli ioni di litio per veicoli elettrici è aumentata del 65% raggiungendo quota 550 GWh. Nello stesso anno la capacità produttiva è stata di circa 1.500 GWh. Il tasso di utilizzo è stato quindi di circa il 35%.
Per un parco full electric servirebbero 78 miliardi di investimenti in batterie
Solo in Europa, due anni fa, la domanda di batterie ha raggiunto i 127,7 GWh sostenuta da una crescita di quasi il 40% rispetto al valore dell’anno precedente (1,7 GWh). Una dinamica positiva ma nettamente distante da quella della Cina e degli Stati Uniti, rispettivamente pari al +70% e +80%. L’Europa insomma produce meno, e cresce più lentamente nelle gigafactory, ma è uno dei principali consumatori: incide per il 23% sulla domanda globale a fronte di una quota di produzione del 7%.
«La strada per colmare il ritardo dei produttori europei appare lunga e complessa», sostiene il ministero dell’Economia in una Nota Tematica pubblicata a novembre. «Per soddisfare l’obiettivo di un parco autovetture immatricolate completamente full electric servirebbero tra i 400 e i 500 GW di batterie prodotte all’anno, ovvero circa 78 miliardi di euro di investimenti, secondo le recenti stime realizzate da Goldman Sachs».
L’Italia è in ritardo su tutti e tre i progetti in programma
Eppure tra ritardi e difficoltà, le gigafactory le stanno costruendo. Su 27 Paesi europei ben 17 hanno in programma o hanno già visto nascere una o più gigafactory. I più grandi stabilimenti sono quello in Polonia della coreana Lg Chem (115 GWh all’anno a regime), quello in Svezia di Northvolt (quasi 110 GWh) e quelli in Germania della cinese Catl (fino a 100 GWh) e di Tesla (oltre 200 GWh). Proprio la Germania è il Paese che catalizza i maggiori investimenti con circa 550 GWh annui di batterie potenzialmente prodotte da qui al 2030. Nella top five seguono l’Ungheria, la Francia, la Norvegia e la Spagna (130 GWh).
E l’Italia? È lo stesso Mef a spiegare che Roma «avrebbe dovuto raggiungere una cifra analoga a quella degli altri Paesi ma con un orizzonte temporale più lungo e, quindi, caratterizzato da maggiori incertezze». Un condizionale che risulta d’obbligo dal momento che il Paese è in ritardo su tutti e tre i progetti previsti – quello di Italvolt, di Seri Industrial a Tervola e l’ultimo di Acc – e che almeno due su tre sono in forte difficoltà.
Il piano di Italvolt, da realizzare sul sito produttivo di Olivetti a Scarmagno (To), è aggravato dai ritardi del progetto di investimento e dai debiti accumulati.Quello che doveva sorgere a Termoli per mano di Acc (la joint venture tra Stellantis, Mercedez e TotalEnergies) è stato recentemente messo in stand-by.
Se tutti i progetti europei in programma fossero realizzati senza intoppi, la società Benchmark Mineral Intelligence calcola una capacità produttiva annua di quasi 800 GWh: ben al di sopra delle attese di Bruxelles e delle esigenze di autonomia strategica.
Il monito del direttore dell’Anfia: «Resta il rischio di dipendenza dalla Cina»
«Non basta avere le gigafactory», spiega a Milano Finanza Gianmarco Giorda, direttore generale dell’Anfia, l’associazione delle aziende italiane di componentistica del settore automobilistico. «Potremmo anche essere i numeri uno europei nella costruzione di impianti per batterie, ma il problema è che per ora gestiamo principalmente la catena di montaggio più che quella del valore. L’Europa importa dalla Cina buona parte delle materie prime critiche necessarie alla produzione delle celle delle batterie: di fatto assembliamo, non costruiamo».
Esattamente come accade con il gas dall’invasione russa dell’Ucraina, corriamo il rischio di essere dipendenti. Il direttore dell’Anfia spiega che con il Critical Raw Materials Act della Commissione europea la strada da percorrere è ben definita. Quel che bisogna fare ora è metterla in pratica.
Giorda evidenzia due «fattori di competitività» in grado di garantire a un Paese europeo più o meno investimenti: il mercato dell’elettrico e il prezzo dell’energia. «Già adesso la Spagna è un luogo fertile per la creazione di questi grandi impianti. Non solo il costo dell’energia è estremamente competitivo, si vendono anche tanti veicoli elettrici». Tra gennaio e novembre 2024 in Europa sono state immatricolate poco più di 9,7 milioni di nuove vetture, di cui 1,3 milioni a batteria. «Nei prossimi due anni l’adozione importante di auto elettriche creerà un volano di mercato. Siamo ancora in tempo per lavorare sull’intera catena del valore», è l’auspicio di Giorda. (riproduzione riservata)
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