Medio Oriente: il costo delle crisi

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Nel corso dell’anno che sta per concludersi la geopolitica del Medio Oriente è stata completamente stravolta: posture strategiche, logiche di deterrenza, certezze consolidate e leadership decennali sono state spazzate via dal massacro del 7 ottobre 2023, dalla violenta reazione israeliana lungo la Striscia di Gaza e in Cisgiordania, dall’apertura simultanea di più fronti – dallo Yemen al Libano – dagli episodi di escalation con l’Iran e dalla recente caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria. Si è quindi aperto un processo di ridefinizione degli equilibri geopolitici regionali che non è chiaro ancora su quali coordinate si assesterà.

Sul piano economico, invece, il quadro si è via via rivelato meno allarmante di quanto pronosticato inizialmente: nonostante il fortissimo impatto sulle economie dei Paesi coinvolti, il PIL, il commercio internazionale e in particolare il mercato dell’energia non hanno particolarmente risentito del conflitto in corso

Secondo l’ultimo aggiornamento del Regional Economic Outlook del Fondo monetario internazionale (FMI), le economie dell’area MENA chiuderanno il 2024 con una crescita “fiacca” al 2,1%, in calo rispetto alle previsioni di inizio anno a causa del clima di incertezza che incombe sulla regione. I tassi di crescita cambiano a seconda dello status di Paesi importatori o esportatori di petrolio, ma anche in questo caso le prospettive sono temperate dal ridimensionamento delle strategie di investimento e dai tagli volontari alla produzione di petrolio in ambito OPEC+. I dati macroeconomici non devono però nascondere una realtà: i costi del conflittotrascendono le immediate circostanze della guerra e hanno effetti deleteri sulla crescita di lungo periodoin temini di perdita di vite umane, distruzione di abitazioni, infrastrutture e industrie. Un recente studio della Banca mondiale ha mostrato come il reddito pro-capite degli abitanti dei Paesi della regione coinvolti da conflitti sarebbero stati in media più alti del 45% se questi non si fossero mai verificati. 

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Petrolio e gas: l’impatto dell’incertezza sui mercati energetici

Nel corso del primo anno di guerra non si è assistito a quell’aumento generalizzato del prezzo di petrolio e gas naturale che si era temuto all’indomani del 7 ottobre 2023, se non in corrispondenza delle fasi più acute del conflitto come in occasione dei due principali episodi di escalation fra Israele e Iran (nei mesi di aprile e ottobre 2024). Nel corso di quest’ultima crisi si era temuto un possibile attacco israeliano alle infrastrutture petrolifere iraniane e questo aveva innervosito i mercati, con i prezzi del Brent che avevano guadagnato l’8% in una sola settimana. Alcuni studi si sono spinti a postulare un aumento di 13 dollari al barile se Israele avesse colpito le infrastrutture energetiche iraniane e fino a 28 dollari in caso di un’interruzione del flusso attraverso lo Stretto di Hormuz. 

Anche il mercato del gas è stato esposto alla volatilità generata dalle crisi in corso, considerato che dallo Stretto di Hormuz transita il 21% dell’export mondiale via mare di gas naturale liquefatto (GNL). La crisi ha minacciato anche l’operatività dei giacimenti israeliani a più riprese. Israele produce circa 22 miliardi di metri cubi di gas l’anno e da solo lo Stato copre circa il 3,9% delle forniture mondiali di GNL. Oltre che per l’economia israeliana, un eventuale interruzione delle attività di produzione comporterebbe conseguenze catastrofiche anche per i due principali clienti di Tel Aviv, la Giordania e l’Egitto. In quest’ultimo caso la situazione è particolarmente delicata dato che il Paese sta attraversando una grave crisi energetica, costellata da frequenti blackout elettrici e da un declino costante della produzione nazionale (in un contesto di crescenti consumi), mentre la dipendenza dal gas israeliano è ulteriormente aumentata negli ultimi mesi.

Un quadro già compromesso

Nonostante non si sia assistito a una conflagrazione regionale su vasta scala, la regione ha pagato un alto costo economico nel corso dell’ultimo anno, soprattutto in quei contesti più direttamente coinvolti dal conflitto, come Iran, Israele, Palestina, Libano, Giordania ed Egitto. La recente caduta del regime di al-Assad in Siria aggiunge poi un ulteriore strato di incertezza all’analisi degli equilibri economici regionali e apre nuovi scenari che fino a poche settimane fa apparivano lontani nel futuro.

Se l’economia dell’Iran è già fiaccata da un decennio di sanzionipolitiche economiche insostenibili, un tasso di crescita molto basso e un altissimo tasso d’inflazione pari al 37,5%, quella israeliana affronta la guerra più lunga e più “cara” dalla sua fondazione. Secondo una stima della Banca d’Israele, la guerra costerebbe circa 66 miliardi di dollari, circa il 12% del PIL nazionale. Quest’anno Israele affronta un deficit in crescita che è pari all’8% del PIL; fra i settori più colpiti, oltre a quello del turismo e del tech, vi è quello delle costruzioni: circa 140 mila lavoratori palestinesi impiegati nel settore sono stati espulsi dal 7 ottobre 2023 e a questo si aggiunge l’impatto della mobilitazione dei riservisti, che costituiscono circa l’8% della forza lavoro del Paese.  

L’ampiezza della catastrofe economica passa in secondo piano in Palestina: quasi 46 mila persone hanno perso la vita nei territori della Striscia di Gaza, mentre oltre 700 sono morte in Cisgiordania. Nel primo trimestre del 2024 la Palestina ha perso il 35% circa del PIL e si stima che il tasso di povertà sia già passato dal 38% al 61%. A Gaza la contrazione dell’economia è stata pari all’86% nel secondo quadrimestre dell’anno. La distruzione di infrastrutture, impianti produttivi, centrali elettriche, scuole, unità abitative è stata devastante, paralizzando l’attività economica e facendo crollare i consumi.

Due mesi di operazioni militari israeliane nel sud del Libano hanno aggravato l’instabilità in un Paese che da oltre cinque anni è immerso in una profonda crisi economica e finanziaria. Nell’anno in corso l’economia dovrebbe contrarsi del 5%. Il Sud del Paese, dove si sono svolte le operazioni di terra israeliane, è una regione agricola vitale per l’economia libanese: l’80% del PIL della regione deriva proprio dal settore agricolo. La paralisi dell’economia regionale si è unita allo sfollamento di circa 1 milione di persone e al crollo del settore turistico (che nel 2023 valeva il 25% del PIL).

Per quanto riguarda la Giordania, per il 2024 si prevede un rallentamento del tasso di crescita al 2,4%, principalmente dovuto all’impatto sulle attività di import ed export dal porto di Aqaba, colpito dalla crisi del Mar Rosso e dal calo del 7,2% dei flussi turistici locali e internazionali. La flessione è stata molto più significativa in località turistiche come Petra, in cui circa la metà delle strutture alberghiere è rimasta chiusa nell’ultima estate, e il deserto di Wadi Rum, che ha visto un crollo della frequentazione pari al 70%. 

L’Egitto, infine, soffre del crollo del 50% del traffico del Canale di Suez, dovuto agli attacchi degli Houthi contro il traffico marittimo. Si tratta di uno degli Stati che più sconta il peso dell’instabilità regionale. Se la rendita del Canale è crollata del 23,4%, passando da 9,4 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2022/2023 a 7,2 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2023/2024, il Paese era riuscito negli ultimi mesi ad attirare ingenti investimenti internazionali, provenienti principalmente da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, e a concludere un accordo dal valore di 8 miliardi di dollari con l’FMI. Tuttavia, la gravità della congiuntura economica attuale e il protrarsi della guerra sembrano spingere il governo egiziano verso la richiesta di un nuovo negoziato con il Fondo, che preveda un posticipo di quelle riforme che mettono “le persone in una situazione intollerabile”, come quella del sistema dei sussidi.

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In questo quadro compromesso dalle ramificazioni del conflitto fra Israele e Hamas, nelle ultime settimane è emerso un fattore non previsto da nessuno fra i principali osservatori della regione, il collasso improvviso del regime di Bashar al-Assad. Proprio il cessate il fuoco fra Israele e Hezbollah lo scorso 27 novembre ha influito sulla decisione dei ribelli di marciare verso Damasco.

Nelle prossime settimane il governo transitorio dovrà approntare le basi per affrontare la sfida colossale della ricostruzione economica del Paese. Quattordici anni di guerra civile hanno dimezzato il PIL del Paese, provocato il collasso della produzione agricola, industriale ed energetica (la produzione di petrolio è passata da 383 mila barili di petrolio al giorno prima della guerra ai 90 mila dello scorso anno), accresciuto la dipendenza dalle importazioni e fatto crollare le esportazioni (il valore del commercio estero è passato da 29 miliardi di dollari nel 2010 a 4 nel 2023). Il regime ha trasformato la Siria in un “narco-Stato”, con il captagon, un’anfetamina, che si è imposto come capitolo di esportazione di maggior valore, generando una rendita di circa 2,4 miliardi di dollari l’anno. Su questo sfondo c’è il dramma della popolazione siriana: oltre mezzo milione di morti, il 90% degli abitanti in una situazione di povertà, più di 6 milioni di cittadini che hanno lasciato la Siria e circa un terzo della popolazione sfollata all’interno del Paese. Le prossime settimane saranno cruciali per capire come il governo transitorio intenderà affrontare le sfide della ricostruzione, il potenziale allentamento delle sanzioni internazionali contro il Paese, la fine dell’economia di guerra e l’eventuale apertura al libero mercato

Quale futuro per la cooperazione economica nella regione?

Prima del 7 ottobre 2023 il Medio Oriente aveva beneficiato di un processo di distensione diplomatica fra molti attori della regione, con la rimarginazione di numerose “ferite” e fratture incrostatesi negli anni, come quella fra gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, la rivalità fra Arabia Saudita e Iran, le tensioni fra Turchia ed Egitto, ma anche nelle relazioni con Israele, che avevano visto l’avviarsi di un percorso di normalizzazione che ha coinvolto Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco.

La prospettiva di un maggiore cooperazione economica come arma contro la storica volatilità geopolitica della regione era stata fra i principali motori di questa ondata di distensione.Sebbene questo percorso non si fosse poi ancora tradotto in una maggiore integrazione economica regionale – e proprio questo ha in qualche modo “protetto” e “insonorizzato” le economie della regione da un maggiore impatto economico del conflitto –, la traiettoria che sembra essere stata tracciata si trova ora di fronte a una battuta d’arresto.

Nel 2025 sarà interessante analizzare come questo “processo interrotto” entrerà in relazione con gli ultimi sviluppi sul campo, dal cessate il fuoco in Libano (e quindi dalle opere di ricostruzione delle aree colpite dal conflitto) all’avvio di un processo di transizione politica in Siria fino all’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, uno degli artefici di questa politica di “distensione economica”, il prossimo 20 gennaio. 

Questo articolo rappresenta una versione rivista e aggiornata del contributo “Medio Oriente: il crollo delle certezze” pubblicato per il Global Watch “Guerra in Medio Oriente: i costi dell’escalation” dell’8 ottobre 2024 e disponibile al link seguente. 



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