«Occorre un’informazione che sia capace anzitutto di ascoltare, come dice il Papa di “comunicare cordialmente”, mettendoci dentro il cuore per incontrare le persone prima di raccontare. È un invito urgente». Lo sottolinea Marco Girardo, direttore di Avvenire, commentando il Discorso alla Città.
«La gente non è stanca della buona comunicazione, perché la comunicazione è il servizio necessario per avere un’idea del mondo. Invece la gente è stanca di quella comunicazione che raccoglie la spazzatura della vita e l’esibisce come se fosse la vita, stanca della cronaca che ingigantisce il male e ignora il bene». Come valuta la forte critica dell’Arcivescovo verso un’informazione urlata e la sollecitazione a un’informazione di qualità?
È quanto meno opportuna, perché viviamo in un clima in cui la comunicazione e l’informazione sono caratterizzate innanzitutto dall’alto tasso di conflittualità, che funziona (soprattutto amplificato dai social), attira, rivolgendosi alla pancia, crea tensione e distrazione. C’è inoltre una ridondanza di notizie: penso che le persone siano stanche perché sono sature, bombardate da un’informazione che spesso assomiglia a un conflitto costante.
Delpini sostiene che la gente è «stanca dei social che veicolano narcisismo, volgarità e odio». Sono solo uno strumento in mano agli odiatori o possono rappresentare un’occasione di socialità sana?
Sono nati per questo. Purtroppo il problema è che dietro c’è un meccanismo molto chiaro: le aziende dei social hanno dato mandato ai propri algoritmi (programmati e che adesso lavorano in maniera autonoma) di generare quanto più coinvolgimento possibile. Gli esseri umani si lasciano coinvolgere, come dimostrano le ricerche sociali, più dall’elemento della conflittualità e dalle teorie complottiste, cariche di odio, che da un discorso compassionevole. Quindi, se non si ha un’azione attiva nei social, ma ci si immerge semplicemente in maniera passiva, si rischia di essere schiavi di questo meccanismo che è insito nella loro natura. Certo che sono uno strumento per creare comunità, ma bisogna abitarli con uno stile diverso.
Come i media possono aiutare i giovani a guardare con speranza al futuro?
Imparando a essere all’altezza dei giovani, a non guardarli dall’alto in basso, non proponendo una versione dell’informazione top-down, cominciando ad ascoltarli sinceramente, perché hanno bisogno soprattutto di essere ascoltati.
«Ricostruire nell’opinione pubblica in modo realistico la stima e la gratitudine per coloro che lavorano nel “sanitario”: esaltati come eroi durante la pandemia, oggi si ritrovano sovraesposti e aggrediti». Quale può essere il contributo dell’informazione?
La sanità si trova in una fase di forte crisi. Il contributo che l’informazione può dare è raccontarne la situazione di disagio sociale, amministrativo e politico. Un lavoro di informazione serio su questo aspetto non strumentale, non ideologico, non politico in senso “politichese”. È una funzione essenziale per il giornalismo. Inoltre, avendo la capacità di creare condizioni per cui chi si sente in balia della violenza, come i sanitari in questo momento, possa vedersi tutelato e non strumentalizzato per un fine politico. Quindi la capacità di raccontare veramente la loro esperienza.
«Noi tutti siamo stanchi della guerra, delle notizie di guerra e delle ragioni addotte per giustificarla. Siamo stanchi e ci sentiamo impotenti e inascoltati quando chiediamo pace», dice l’Arcivescovo. Come valuta il racconto che ne stanno facendo i media e come possono contribuire a educare alla pace?
In questo frangente, se si vogliono evitare scontro e contrapposizione, è necessario seguire almeno tre movimenti. Primo: anche i media non devono smettere di denunciare con chiarezza tutti gli abusi del diritto internazionale, che costituisce comunque l’unico linguaggio comune a cui bisogna cercare di fare riferimento. Quindi, di fronte alla violazione esplicita, la denuncia deve essere fatta senza indugi. Secondo: la storia e l’esperienza insegnano che, quando c’è un conflitto in atto, i torti e le ragioni non stanno mai completamente da una parte sola. Non dico che siano equamente distribuiti, ma chi cerca la pace sa che, per poter interrompere l’automatismo del conflitto, è sempre necessario mettere sul piatto anche il riconoscimento delle ragioni, pur parziali e contradditorie, dell’altro. È un movimento difficile, rischioso, che non assicura il lieto fine, ma necessario. Terzo: la pace va cercata attivamente. Bisogna lavorare per immaginare creativamente una via d’uscita, che sia capace di sbloccare la situazione, di cambiare la dinamica imposta da chi mette inizio al conflitto e che può portare la pace.
Nell’anno del Giubileo i giornalisti come possono essere pellegrini di speranza?
Rispondendo pienamente alla loro vocazione, facendo bene il loro mestiere. Non essendo al servizio di nessuno, se non della verità dei fatti, della responsabilità dell’informazione, di quello che scrivono e che dicono, facendo la fatica di ascoltare.
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