tra fango e assoluzioni e viaggio a Catania

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Un’aula bunker costruita a Lamezia come una cattedrale nel deserto per la modica cifra di otto milioni di euro, in mezzo a torrenti destinati a straripare e allagare e distruggere al primo temporale, e altri due milioni e ottocentomila euro già stanziati dal ministero, mentre tutti i tribunali di Calabria piangono miseria. E un processo mastodontico e succhiasoldi di nome “Rinascita Scott costretto a emigrare in Sicilia perché il mega- bunker è annegato nel nulla cui era destinato. L’avevano previsto dal 2020, quando era nato il progetto, gli avvocati di Calabria, come ricorda Valerio Murgano, membro della giunta nazionale delle Camere Penali. Perché, dice, quando alla lesione dei diritti della difesa determinato da gigantismo giudiziario si sommano situazioni logistiche a rischio, l’implosione è sicura. Infatti è accaduto. Se ne è accorto il ministro Carlo Nordio, prima di aprire il portafoglio per continuare a nutrire l’onnivora creatura voluta dall’ex procuratore di Catanzaro?

«È importante – aveva detto Nicola Gratteri – che il processo Rinascita Scott si svolga qui, per dimostrare che i calabresi non sono il popolo delle incompiute». Era il 2021 e, in piena emergenza da Covid, il procuratore di Catanzaro in soli cinque mesi aveva messo in piedi l’aula bunker di Lamezia che avrebbe dovuto renderlo più famoso di Giovanni Falcone. Tremila metri quadri e mille posti a sedere, 8 milioni di euro di spesa per il processo con 300 imputati che avrebbe dovuto sgominare l’intera ’ ndrangheta di Calabria.

Tre anni dopo e a dodici mesi di distanza dalla sentenza di primo grado, l’aula è affogata nell’acqua e nel fango. Tutto il sistema elettrico e informatico inutilizzabile. Senza che a nessuno venga il dubbio di aver messo in piedi una cattedrale scenografica sepolta in mezzo ai torrenti in un terreno facile alle frane e al dissesto idrologico. Così, senza più tener conto dell’orgoglio dei calabresi che «non sono il popolo delle incompiute», ora il processo d’appello “Rinascita Scott” si terrà non proprio lì dietro l’angolo di quelle insegne turistiche che con sussiego indicavano la strada per arrivare al bunker. Un bel viaggetto a Catania, regione Sicilia. In linea d’aria 225 chilometri, ad arrivarci, oltre lo Stretto. Più vicino pare impossibile, per carenza di aule adatte alla grandeur voluta dall’ex procuratore di Catanzaro. E già, perché il Maxi è il Maxi, e ci vogliono quei tremila metri quadri per contenere un processo che non è neppure in Corte d’Assise, perché non è chiamato a giudicare stragi e omicidi, ma sostanzialmente il reato di associazione mafiosa. E non è neppure diminuito nella sostanza il numero degli imputati, nonostante i 131 assolti su 338 rinviati a giudizio, perché, anche se non c’è più Nicola Gratteri nel ruolo dell’accusatore (ma la sua presenza aleggia nell’aere), comunque la procura di Catanzaro ha presentato i suoi bravi ricorsi e li ha richiamati quasi tutti a Catania, insieme ai loro circa duecento difensori e la cinquantina di parti civili. Saranno quindi lì, nel bunkerino, ben più modesto di quello di Lamezia, per le udienze già fissate, giorno dopo giorno, dal 3 al 14 febbraio del prossimo anno. In quei giorni questo popolo del nomadismo giudiziario composto di magistrati, avvocati, cancellieri, imputati e parti civili, cui si dovranno aggiungere carrelli con migliaia di pagine processuali, dovrà subire una vera migrazione, traversare lo stretto e andare a posizionarsi ai piedi dell’Etna. E fare una riverenza alla vanagloria di chi voleva smontare la Calabria come un Lego e passare alla storia come il Falcone di Calabria e ha creato un mostro di 300 imputati. Oltre a tutto in un distretto giudiziario dove i magistrati sono pochi e a molti di loro è già capitato, in qualche ramo collaterale, di aver espresso giudizi su qualche indagato, magari per una semplice intercettazione, ma sufficiente per determinare l’obbligo di astensione dal processo principale. E nello stesso distretto in cui è in corso lo stato di agitazione, indetto dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catanzaro, dei legali che lamentano la sproporzione tra l’esiguo numero dei gip (solo 9 sui dodici previsti, e in realtà 8 in concreto) a fronte di una procura elefantiaca con i suoi 29 pm. Una situazione anomala nel panorama italiano, un “unicum”, dice l’Ordine degli avvocati, ricordando come la Regione dei “maxi” abbia prodotto anche un numero smisurato di errori giudiziari e di conseguenti risarcimenti per le ingiuste detenzioni per le quelli i due distretti di Catanzaro e Reggio svettano sui vertici nazionali. Anche l’abitudine radicata delle procure, non solo in Calabria, ovviamente, di non accettare mai le assoluzioni, considerate più ancora che sconfitte dei veri affronti personali, è lì a complicare la situazione del “Rinascita Scott”.

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Quando circa il 40% delle persone che erano state arrestate nel famoso blitz del 19 dicembre 2019 vien dichiarata innocente, non si può pensare che nella genesi di quell’inchiesta c’è stato qualcosa di sbagliato, forse di malato? C’è un’altra considerazione da fare. Tutto questo set cinematografico sfociato nell’annegamento dell’aula bunker era finalizzato, a detta degli inquirenti, a spezzare le reni a quella famosa “zona grigia” che avrebbe tenuto insieme le cosche mafiose con il mondo dell’impresa e della politica.

Di questo teorema è rimasto in piedi, dopo la sentenza di primo grado, solo un aspetto simbolico più che reale, la condanna a undici anni per concorso esterno dell’avvocato Giancarlo Pittelli. Si ha l’impressione surreale che non si potesse fare a meno di tenere alzata quella bandierina, senza la quale non solo si sarebbe sgretolata la principale ipotesi che reggeva il castello dell’accusa, ma si sarebbe arrecato un danno reputazionale di ogni singolo magistrato, dal procuratore ai giudici. Eppure, nel corso delle indagini, per ben due volte altri uomini in toga, i giudici di due diverse sezioni della Cassazione, avevano certificato l’inesistenza degli elementi base del reato di concorso esterno, l’aiuto concreto che rafforzi la sussistenza dell’organizzazione. Giancarlo Pittelli viene condannato perché accusato (ingiustamente, dice la Cassazione) di aver divulgato delle carte riservate. Una situazione paradossale, insomma. Annegata nel fango, per logica destinazione.



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