Cagliari È un settore industriale molto particolare, sia per i prodotti (le armi e i sistemi di difesa) che per le imprese che lo guidano (nel nostro caso società controllate dallo Stato). Il comparto della difesa nel nostro paese, che in un mondo ideale si vorrebbe ridotto ai minimi termini, cresce ma non quanto dovrebbe. Un recente studio di Mediobanca ha analizzato le caratteristiche di questo settore a livello mondiale, con giganti, anche in ambito europeo, tante realtà più piccole, spesso dual-use, cioè produttrici di elementi utili sia in campo civile che militare; l’elettronica e la componentistica prima di tutto, ma anche la lavorazione di metalli speciali.
Inutile dire che gli Usa dominano questa classifica, per capacità, livello tecnologico e produzioni. Analizzando le 40 multinazionali con ricavi oltre il miliardo di euro, si vede però che 17 hanno sede in Europa (quattro nel Regno Unito, quattro in Francia, due in Germania, Italia e Paesi Bassi, una ciascuna in Polonia, Spagna e Svezia), 16 negli Stati Uniti e sette in Medio Oriente e Asia (due in Corea del Sud e India, una ciascuna in Israele, Turchia e Taiwan).
Lo scenario è da tempo dominato dai gruppi statunitensi, con una quota del 68% dei ricavi aggregati nel 2023, seguiti dai player europei con il 27% e da quelli asiatici con il 5%.
L’Italia, rappresentata da Leonardo (15 miliardi di ricavi) e Fincantieri (7 miliardi, ma comprese anche le voci sulla cantieristica navale ad uso civile), conta per il 14% del giro d’affari europeo e per il 4% di quello mondiale. Il mercato è concentrato: le prime dieci multinazionali rappresentano oltre due terzi dei ricavi aggregati, e i primi cinque gruppi Usa da soli rappresentano la metà di tutto il giro d’affari mondiale.
Venendo all’Italia si può notare che l’intero comparto ha ricavi per 40 miliardi l’anno. Il nostro paese ha alcuni punti eccellenza mondiali, come l’elicotteristica, l’elettronica e la cantieristica navale. I nostri big player sono Leonardo e Fincantieri. La prima ha 31mila dipendenti sparsi in 38 siti produttivi in quindici regioni, la seconda ha ottomila dipendenti in Italia, e altrettanti all’estero. Nel livello intermedio di questa immaginaria piramide, società di dimensioni più contenute specializzate su singoli apparati o sottosistemi. Infine, la terza fascia di aziende è costituita da tante piccole e medie imprese.
Le prime 100 aziende italiane hanno tutte un fatturato maggiore di 19 milioni di euro e impiegano almeno 50 dipendenti l’una, e sono tipicamente dual-use.
Per questa ragione, il loro fatturato aggregato, pari a 40,7 miliardi, non è attribuibile interamente alla Difesa, ma solo per metà. «Anche per la forza lavoro – è scritto nel report di Mediobanca – che ammonta complessivamente a oltre 181 mila persone nel 2023, la quota riferita alla sola Difesa e basata in Italia si attesta a 55mila unità. Il valore aggiunto attribuibile all’industria della Difesa è pari a circa lo 0,3% del Pil italiano nel 2023».
Se gli acquirenti dei sistemi di difesa sono, o dovrebbero essere, gli Stati, ciò vale ancor di più per la titolarità di queste imprese. Il 60 per cento delle società operanti in Italia sono a controllo societario statale (mentre tutte sono a controllo di sicurezza), ma non mancano gli stranieri: 36 delle 100 aziende «hanno una proprietà estera che controlla il 25,1% del fatturato aggregato (di cui il 12,2% europeo e il 10,1% statunitense). Le aziende a controllo familiare italiano contano per il 15,6% del totale, sebbene siano più numerose delle estere e più piccole».
La nostra industria della Difesa funziona anche come biglietto da visita per il made in Italy.
Due terzi delle produzioni vengono esportati, ma esclusi i due big, con vocazine internazionale, la quota scende al 50 per cento. I principali mercati di sbocco delle prime cento imprese sono l’Europa che accoglie oltre la metà delle vendite (61%), e gli Usa.
Come nel resto del mondo le spese in ricerca e sviluppo costituiscono una componente elevata dei ricavi, arrivando al 6 per cento.
Si attestano mediamente al 6% dei ricavi, circa 2,4 miliardi di euro. Un quinto di tutti gli investimenti in R&S europei, ma solo il 2 per cento della spesa Usa, che arriva a 130 miliardi l’anno.
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