Sulcis & Black mass, il grande ricatto di Natale

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Il film è sempre lo stesso. Visto e rivisto. In bianco e nero e technirama, come se la storia scorresse su fotogrammi già impressi in un copione scritto da tempo. Eurallumina, proprietà russa, chiusa a marzo del 2009. Quattrocentocinquanta lavoratori diretti spediti a casa senza troppi convenevoli. Quindici anni dopo cancelli sempre sbarrati, nessun serio progetto di riapertura, operai perennemente ingannati da continui annunci di novità e promesse senza seguito, stabilimento ridotto ad un cumulo di ruggine. Alcoa, proprietà americana, chiusa a novembre del 2012. Mai riaperta. Un fiume infinito di denaro pubblico “regalato” ad una società svizzera senza storia che dal 2018 ad oggi non fa altro che annunciare rilanci produttivi e nuova occupazione. Per adesso, però, niente di concreto, nonostante la pletora di Ministri giunti negli anni al capezzale della fabbrica di alluminio. Infine, Natale 2024, l’anno del Giubileo.

Glencore, la fuga

È la volta della “Portovesme srl”, in realtà Glencore, multinazionale svizzera. Dopo aver “seppellito” la linea produttiva del piombo, alla vigilia dell’apertura della Porta Santa, ha deciso di chiudere anche l’asset dello zinco. Milleduecento dipendenti in tutto: 500 diretti che avranno la cassa integrazione, mentre per i lavoratori dell’indotto il futuro è per strada, come si conviene alle multinazionali che prima sfruttano, inquinano e poi scappano. Ne arriveranno ancora Ministri in quei cancelli sbarrati. La sceneggiatura prevede indignazione, contestazione severa e urlata verso le multinazionali di turno, con tanto di appelli retorici alla “clemenza” straniera.

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L’ennesimo ricatto

Eppure, qui, nel profondo Sulcis, quello industrializzato dallo Stato negli anni settanta con l’obiettivo di estrarre piombo e zinco dalla galena strappata alle viscere metallifere dell’Iglesiente, si sta consumando l’ennesimo “ricatto” ai danni dei lavoratori, della salute e dell’intero territorio. Secondo alcuni, la parola “ricatto”, non si può usare. Giusto per non urtare la “sensibilità” degli stranieri, come se non avessero già approfittato abbastanza. In ballo c’è un atteggiamento subdolo e strisciante, con qualche complice in terra sarda pronto a farsi incantare dal miraggio dei “veleni” mondiali, in grado di risollevare, secondo i novelli visionari, le sorti dell’occupazione e dello sviluppo. In realtà si tratterebbe di consentire a chi ha fermato tutto, piombo e zinco, di imporre ad un territorio intero la “retromarcia” dello sviluppo, costringendolo a sacrificare migliaia di posti di lavoro, in cambio di qualche addetto per realizzare un vero e proprio crocevia mondiale di veleni, fumi di acciaieria e Black mass di litio. Un modo come un altro per “seppellire”, per sempre, l’ambizione del Sulcis di vivere senza ricatti, quelli tra lavoro e salute, mercati e inquinamento. La multinazionale svizzera non l’ha presa bene la decisione dello scorso anno della Regione di non accettare supinamente il piano per riciclare a Portovesme la Black mass mondiale, i rifiuti delle batterie di litio, un progetto che cova in sè il malsano obiettivo di trasformare il futuro di questo lembo di terra sarda, già violentato a piene mani, in un gigantesco hub mondiale di veleni.

Tutti a casa

È questo l’oggetto del contendere, anche se tutti lo negheranno: rifiuti e veleni in cambio di un momentaneo stop ai licenziamenti. Poi, una volta ottenuto il nefasto via libera al “riciclo mondiale” delle batterie di litio, la “festa”, quella del “tutti a casa” ripartirà, come sempre è stato. La partita è uno schema di gioco consolidato: minacciare licenziamenti, licenziare, esasperare e ottenere ricchi incentivi e via libera per veleni e rifiuti. Alla vigilia di Natale lo schema è stato accelerato da quella che il comunicato di Glencore definisce «rapida evoluzione delle circostanze tecniche» che ha portato alla «decisione di fermare la linea di zinco il 23 dicembre». Vogliono passare anche da novelli tutori della sicurezza sul lavoro e lo scrivono: «questo per garantire l’integrità tecnica delle operazioni, la sicurezza del nostro personale e la gestione del rischio di impatto ambientale». Insomma, vorrebbero persino un plauso per la “tempestiva” chiusura prenatalizia. Il Ministero del Made in Italy, sempre più proteso a sponsorizzare soluzioni straniere, vedasi l’ultimo decreto-legge sulle materie critiche, ha persino annunciato «una missione tecnica propedeutica alla ricerca di nuovi investitori con progetti industriali compatibili con le attività attualmente presenti nel sito di Portovesme».

Cedesi chiosco

Come se sostituire una multinazionale che produce piombo e zinco significasse aprire un chiosco di bibite. Tutte affermazioni propagandistiche consolidate nel tempo: lo dissero per Eurallumina, lo riaffermarono per Alcoa, lo dicono oggi per Glencore. La realtà è ben altra: il Ministero vuole sponsorizzare, senza mezzi termini, quel nefasto progetto di fare della Sardegna una discarica dei veleni di Black mass, ipotesi già bocciata dalla Regione e dal Comune di Portoscuso. Per perseguire questo scellerato piano, accettando il condizionamento straniero, Roma ha persino emanato un decreto già convertito in legge, con il quale ha “annientato” lo Statuto Autonomo della Sardegna, scippando “manu militari” alla Regione competenze statutarie e costituzionali, indispensabili per bloccare questo ennesimo scempio ambientale. Non è un caso che l’attuale Giunta regionale ha dovuto impugnare quel provvedimento del Governo davanti alla Corte Costituzionale con accuse chiare e puntuali: il provvedimento del Ministero è scritto nel ricorso «ha scardinato l’assetto costituzionale delle competenze, legislative e amministrative, delineate dallo Statuto speciale per la Regione Sardegna, dalla Costituzione, dalle relative norme di attuazione». Il ricorso sardo alla Corte delle Leggi è durissimo: la legge sulle materie rare e riciclo «è l’arbitraria e comunque ingiustificata modificazione del sistema delle attribuzioni e prerogative fissate dalla Statuto sardo e dalla Costituzione a vantaggio della Regione Sardegna». Lo “scippo” costituzionale sul “riciclo” delle materie rare è operazione non casuale, ma studiata nei dettagli, giusto per assegnare allo “straniero” di turno l’ennesima concessione inquinante sulla testa dell’Isola. Una partita, però, che non potrà essere decisa prima della sentenza costituzionale, anche se il Ministero e la stessa Glencore tenteranno in tutti i modi di forzare la mano, cercando magari di scongiurare il pronunciamento dei Giudici dell’Alta Corte. Quel che emerge con più evidenza in questo scenario di “ricatti”, favori e condizionamenti, è la totale assenza di una strategia pubblica, con multinazionali che portano “a spasso” Governo e Regione, protesi sempre più ad una contestazione di facciata e ad una sudditanza sibillina.

Nessun piano strategico

Nessuno, nè Regione, tantomeno Governo, del resto, hanno preso in considerazione quello che in altri territori e in altre vertenze è stato concretizzato, vedasi l’acciaio a Taranto: la nazionalizzazione di produzioni strategiche. In Sardegna, invece, per far finta di “tappare” le falle, si perseguono demenziali “spezzatini” industriali da affidare a qualche improvvisata “srl” da quattro soldi. Insomma, due pesi e due misure. Il Governo, per esempio, ha dichiarato “strategiche” le “materie rare” contenute nei duecento milioni di metri cubi di sterili minerari sardi. In realtà, lo abbiamo svelato anni fa nel nostro giornale, secondo le stime di una società australiana negli sterili minerari dell’Iglesiente c’è una montagna di materie “critiche”. Le quotazioni alla Borsa dei metalli di Londra rivelarono dei veri e propri giacimenti di piombo e zinco per un valore di oltre tre miliardi e mezzo di euro. Insomma, quanto basta per un serio e concreto piano decennale di utilizzo di quelle risorse metallifere e strategiche, bonificando integralmente i territori inquinati. La Portovesme srl, per fare utili a mani basse, ha, invece, preferito trattare i nefasti fumi di acciaieria provenienti da mezzo mondo, a volte anche radioattivi, piuttosto che mettere in campo, magari in joint venture con l’Igea o la Carbosulcis, un piano strategico per estrarre e bonificare “piombo” e “zinco” contenuti, con tenori rilevanti, in quei cumuli di inquinamento. Si è preferito, per esempio, per l’ennesima volta, dilapidare in mille e inutili rivoli le risorse del Just transition fund per Sardegna.

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Soldi al vento

Uno stanziamento di 367 milioni, con un discutibile stanziamento di 49 milioni per l’assistenza tecnica, che anziché perseguire un vero progetto strategico, come quello della “bonifica produttiva” di quei siti minerari, sarà “consumato” senza alcuna risposta per il risanamento ambientale, nuovi posti di lavoro e rilancio economico. Tantomeno il Governo perseguirà la nomina, come lo è stato, per esempio, per l’Ilva di Taranto, di un commissario straordinario per le grandi crisi industriali, per accompagnare alla porta i signori di Glencore, imponendogli il massimo esborso possibile per il risanamento ambientale. La gestione “pubblica” del sito industriale sarebbe più che legittima, con un credibile piano strategico di risanamento produttivo e riconversione. Non un nuovo fallimentare Piano Sulcis, ma progetti concreti in cui Stato e Regione assumano un ruolo diretto e da protagonisti. Per questa povera terra del Sulcis, forse, però, significa chiedere troppo. Meglio un pò di pacche post natalizie, un pò di telecamere di Stato e un arrivederci al prossimo comunicato di chiusura.

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