Il 2025 si presenta come una sorta di grande risiko universale. Senza più gli storici riferimenti di un ordine mondiale che non c’è più, è giunto il tempo delle decisioni e degli atti concreti per le grandi dinamiche geopolitiche globali. È il tema del report “Il mondo del 2025 – Time to deliver” realizzato dall’ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. Nelle sue 83 pagine realizzate da analisti dell’istituto ma anche da esperti e docenti di politiche internazionali, il documento tratta delle dinamiche geopolitiche globali, nella prospettiva dei prossimi dodici mesi. I focus sono su Stati Uniti, Europa, Cina, le guerre in Ucraina e Medio Oriente e le sfide che i leader mondiali dovranno affrontare su tre nodi strategici: le migrazioni, il cambiamento climatico e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Scrive Paolo Magri, Managing Director e President Advisory Board ISPI: “Se il 2024 è stato un anno di profondi cambiamenti, alcuni attesi, come le elezioni europee e americane, e altri del tutto imprevisti, come il collasso del regime di Assad in Siria, il 2025 si annuncia come l’anno in cui i grandi attori mondiali saranno chiamati alla prova dei fatti. A trasformare insomma piani, promesse e ambizioni in azioni concrete. Gli Stati Uniti, con Donald Trump di nuovo alla guida nel suo secondo mandato, dovranno tradurre promesse e retorica in azioni tangibili. Che fare sui dazi, sulle espulsioni di migranti, nei rapporti con la NATO? In Europa, la Commissione Ursula von der Leyen si troverà davanti a scelte difficili: riuscirà a rilanciare la competitività economica e rafforzare la capacità di difesa nonostante risorse limitate e una maggioranza sempre più fragile? E Germania e Francia – continua Magri – riusciranno a uscire da una spirale di crescente instabilità politica ed economica? Dall’altra parte del mondo, la Cina, con un’economia in rallentamento e un debito in crescita, cercherà di mantenere la stabilità interna mentre sfida gli Stati Uniti per la leadership globale. Quale ruolo giocheranno i BRICS, in espansione ma ancora frammentati? Infine, il 2025 sarà un anno cruciale per la gestione delle crisi in Ucraina e Medio Oriente, che continueranno a modellare l’agenda internazionale in assenza di soluzioni di pace e stabilità. Se e quanto gli attori riusciranno a decidere – conclude Magri – definiranno non solo l’anno che sta per cominciare, ma anche gli equilibri futuri di un mondo che cambia sempre più velocemente.”
Prima mossa, fra le tante già innescate nel 2024, l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio. E dalle scelte immediate del Tycoon, a cascata potranno derivare assestamenti o nuovi, più probabili, scossoni in tutto il mondo. A cominciare dall’annunciata guerra dei dazi. Trump, al cui fianco il ruolo di Elon Musk appare rilevante anche sul piano dell’appoggio alle destre nazionaliste in Europa, è chiamato a dare seguito ai roboanti proclami della campagna elettorale: “Basta mettere in fila queste promesse – sottolinea il report dell’Ispi – per afferrarne la portata dirompente: imporre nuovi dazi alla Cina, ma minacciarli anche verso gli alleati (Unione Europea, Canada, Messico); costringere i paesi europei della NATO ad aumentare ancora le spese per la difesa; espellere milioni di migranti irregolari; spingere la produzione interna di petrolio e gas; abbassare le tasse senza approfondire le già alte disuguaglianze; licenziare decine di migliaia di dipendenti federali “alla Milei”, semplificando norme e regolamenti; imporre un maggiore controllo presidenziale sulle decisioni della Fed sui tassi d’interesse”.
Nel capitolo che il report dell’Ispi dedica agli interrogativi sulla politica americana, scrive Mario Del Pero, ISPI Senior Associate Research Fellow e professore di Storia Internazionale presso l’Istituto di Studi Politici – SciencesPo di Parigi: “Lo slogan simbolo di Trump, “Make America Great Again”, è intriso di contraddizioni e incongruenze, soprattutto considerando che gli Stati Uniti non hanno mai realmente smesso di essere “grandi”. Dalla globalizzazione si può (e deve) uscire, afferma Trump, per liberare il paese da supply chains che ne acuiscono vulnerabilità e dipendenze, e ne impediscono qualsiasi piano di ripresa industriale. Tariffe, sussidi, incentivi fiscali, ulteriore potenziamento dell’autosufficienza energetica attraverso una radicale deregolamentazione dell’estrattivo: queste e altre politiche si pongono l’obiettivo di disaccoppiare l’economia statunitense da quelle di altri attori, Cina su tutti. Un obiettivo – afferma Del Pero – da perseguirsi anche attraverso esplicite pressioni sui propri alleati, europei e nordamericani in particolare, per indurli a partecipare a questo disaccoppiamento ovvero per sanzionarli laddove non fossero disposti a seguire gli Usa. La valenza anticinese di questo progetto di deglobalizzazione è evidente e finanche ostentata”.
La forte vena protezionistica di Trump trova nella minaccia di pesantissimi dazi la sua più evidente semplificazione. Scrivono Lucia Tajoli, senior Associate Research Fellow dell’Osservatorio di Geoeconomia dell’ISPI e professore di Economia Politica per il Politecnico di Milano e Roberto Italia, ricercatore presso il Centro Geoeconomia ISPI: “Nell’ultimo World Economic Outlook di ottobre, il Fondo monetario internazionale ha modellato uno scenario che nemmeno troppo velatamente mette in guardia sul rischio di una guerra dei dazi innescata da Trump. Alcune ipotesi dello scenario sono le seguenti: a metà 2025 USA, Eurozona e Cina impongono dazi permanenti del 10% sui flussi commerciali tra le tre aree e gli USA e il resto del mondo si impongono a vicenda dazi permanenti del 10%, colpendo un quarto dell’interscambio mondiale di beni e aumentando l’incertezza sulle politiche commerciali future e a cascata sugli investimenti privati. All’Europa verrà sferrato un duro colpo, se non sarà compatta, al multilateralismo così come l’abbiamo conosciuto. Un colpo potenzialmente letale”.
L’Unione Europea non gode certo di buona salute, anche in relazione alle crisi in cui versano i due paesi tradizionalmente motori dell’UE, la Germania e la Francia: “La Germania, che andrà al voto a febbraio – evidenzia il documento dell’ISPI – deve fare i conti con un sistema economico che non è più sostenibile: energia russa a basso costo e esportazioni verso la Cina non si possono più dare per scontate. La Francia, invece, rischia di rimanere politicamente bloccata a lungo – scrive Paolo Magri – le elezioni anticipate della scorsa estate e il divieto costituzionale di rivotare entro un anno impediscono a Macron di provare a sbloccare la situazione, e al governo francese di agire con la forza necessaria per sanare i conti pubblici e al contempo a trovare nuove strade di crescita. Situazioni diverse, ma con un risultato comune: un’Europa in cui l’urgenza di riforme cresce, ma priva della forza politica necessaria per metterle in atto”.
L’Europa rischia molto nel 2025, iniziato già con un evento che richiede capacità di reazione politica: con il 1° gennaio si è infatti chiuso l’approvvigionamento di gas dalla Russia per i Paesi dell’Ue, che rappresentava il 5% delle forniture. Questo in virtù della fine dell’accordo di transito del gas russo attraverso le rotte passanti per l’Ucraina. Sullo sfondo, c’è la possibilità di ulteriori rincari. E questo produce contraccolpi diretti sulla politica del secondo mandato di von der Leyen: “I prezzi dell’energia oggi sono tre volte più alti che negli Stati Uniti – scrivono gli analisti dell’ISPI – la produzione industriale dei grandi paesi europei ha accelerato il suo (apparentemente inesorabile) declino, e i rapporti con gli Stati Uniti di Trump si preannunciano molto più tesi. Ursula dispone oggi di ben tre “piani” europei: quello proposto da Draghi per recuperare la competitività perduta, quello di Letta sul completamento del mercato interno, e quello dell’ex presidente della Finlandia Niinistö sulla difesa europea. Si tratta però ora di capire se e come metterli in atto. Il solo rapporto Draghi prevede un impegno aggiuntivo di spesa di 800 miliardi di euro l’anno: una cifra enorme rispetto al budget UE, fermo a meno di 200 miliardi, due terzi dei quali destinati alla politica agricola comune e alle politiche di coesione (non certo agli investimenti per il futuro dell’Unione). Sarà una sfida trovare i soldi per realizzare questi piani in una UE in cui il debito pubblico medio si avvicina ormai al 90% e la crescita annua ristagna intorno all’1%. Inoltre, Draghi è stato chiaro- sottolinea Paolo Magri – senza riforme profonde, spesso a costo zero ma politicamente sensibili, l’Europa rischia comunque una lenta marginalizzazione di fronte alla concorrenza di Washington e Pechino”.
Proprio il capitolo del documento dell’ISPI che riguarda la Cina è tra quelli che segnalano fenomeni rilevanti per tutto il mondo. Nel 2024 il Pil cinese è cresciuto del 5%. Cosa accadrà di fronte agli annunci di Trump? Scrive Alicia García Herrero Senior Advisor dell’Osservatorio Asia dell’ISPI, Senior Fellow di Bruegel, e Chief Economist per l’Asia Pacifico di Natixi: “La nostra previsione è che il tasso di crescita del PIL cinese scenderà al 4,5% nel 2025, con la domanda interna che svolgerà un ruolo cruciale nel compensare il rallentamento delle esportazioni. Lo scenario sopra descritto è soggetto ad alcuni importanti rischi ribassisti, il più preoccupante dei quali è un’ulteriore escalation della competizione tra Cina e Stati Uniti. L’invito di Trump al disaccoppiamento con la Cina non avrebbe gravi conseguenze negative solo per quest’ultima, ma anche per il resto del mondo, a maggior ragione se Trump deciderà di limitare la capacità della Cina di aggirare i dazi doganali statunitensi assemblando le proprie merci in Paesi terzi per poi riesportarle negli Stati Uniti”.
Aggiunge Paolo Magri: “Sono lontani i tempi in cui Pechino poteva permettersi di pompare stimoli a debito, indirizzandoli soprattutto verso infrastrutture e immobili. Anzi, proprio quella crescita drogata presenta oggi il conto alla classe dirigente cinese: i debiti totali dell’economia nazionale sono cresciuti dal 140% del PIL nel 2008 al 290% l’anno scorso, e dunque lo spazio per ulteriori stimoli (se improduttivi) diventa sempre più stretto. La Cina non potrà inoltre limitarsi a guardare in casa propria. Il crescente sostegno alla Russia di Putin e il tentativo di Pechino di posizionarsi come leader del Sud Globale andranno confermati, soprattutto se davvero le risorse economiche serviranno sempre più per casa propria e ce ne saranno meno da dedicare per sostenere gli “amici” nel resto del mondo”.
Un puzzle complicato, dunque, quello geopolitico del 2025. Un gioco di incastri e di reazioni a catena di cui non si capisce chi sia in grado di determinare regole o perlomeno tendenze. E continuano a pesare le guerre in corso, quella in Ucraina e quelle multiple e incrociate nel Medio Oriente, dove la Repubblica islamica dell’Iran sta mostrando sempre di più il suo volto tetro, violento e oscurantista, come dimostra il caso di Cecilia Sala.
Ci sono le condizioni perché nel 2025 cessino i conflitti in corso? Secondo il documento dell’ISPI il quadro è contraddittorio: “A fine dicembre, Zelensky ha ammesso che Kiev “manca della forza militare necessaria per riconquistare i territori occupati dai russi”. Lo sapevamo da tempo, vista la lenta e dispendiosa avanzata dei russi nel Donbass, così come sapevamo che il 2025 sarebbe stato l’anno in cui con maggiore probabilità si sarebbe tornati al tavolo negoziale. Bene, ma a quali condizioni? – si chiede l’ISPI – Mosca accetterà di fare concessioni? E in che modo le organizzazioni internazionali (l’Ue, l’Osce, l’Onu) saranno coinvolte nella gestione di una probabile zona demilitarizzata “alla coreana” che separerà i due contendenti? Una volta interrotte le ostilità, poi, quanto costerà la ricostruzione dell’Ucraina e chi ci metterà il grosso delle risorse?”
Interrogativi che per quanto riguarda il Medio Oriente, sono ancora più pesanti. A cominciare dal primo nodo: “Israele riuscirà a porre un freno a conflitti che per il momento le hanno permesso di mettere in ginocchio i partner strategici dell’Iran che premevano ai suoi confini Hamas, Hezbollah, la Siria di Assad, ma con grossi costi finanziari, umani e di capitale politico?” E poi c’è l’enigmatica nuova Siria: “Riuscirà a tenere a freno le spinte centrifughe dei tanti gruppi armati che ancora la popolano – si legge nel report dell’ISPI – dai curdi finanziati e armati dagli americani, alle milizie pro-turche che non fanno parte dell’attuale gruppo dirigente, passando per i residui del vecchio Stato islamico? Inoltre, nel 2025, il jihadismo globale è destinato a rimanere una minaccia transnazionale di primaria importanza e potrebbe persino approfittare degli sconquassi in corso in Medio Oriente per guadagnare risonanza e influenza.” In sostanza, è un quadro geopolitico, quello delineato dall’ISPI per il 2025, pieno di interrogativi. E non poteva che essere così. Solo la coppia Trump-Musk sbandiera certezze. Ma anche per loro la prova dei fatti è vicina.
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