Venticinque anni senza Bettino Craxi. La figlia: «Papà non aveva soldi. E quando Andreotti fu assolto capì che per lui era finita»
Cose che non si sanno di Stefania Craxi: ha riportato in Rai Pippo Baudo.
«Pippo era andato via dalla Rai nel 1987, accettando l’offerta di Berlusconi. In Fininvest le cose però erano andate male e aveva risolto in contratto, evitando la penale col famoso palazzo all’Aventino ceduto a malincuore al Cavaliere. Il problema era che la Rai, poi, non lo rivoleva più. Uno dei suoi autori storici, Franco Torti, che lavorava con me e Marco (Bassetti, produttore televisivo, oggi suo marito, ndr) al programma La macchina della verità, mi propose di incontrarlo. Ci vedemmo a cena e ci piacemmo subito. Il problema era che Rai1 non ne voleva sapere di lui, per una sorta di ripicca. Chiamai il direttore di Rai2 Luigi Locatelli, socialista, che avevo conosciuto anni prima al congresso del Psi a Palermo. Accettò di metterlo sotto contratto e nacque Serata d’onore. Prima puntata, ospiti Celentano e Jovanotti: dodici milioni di telespettatori. Da lì Pippo ripartì alla grande con la Rai».
E ancora: ha scritto in anticipo parte della storia del futuro Movimento Cinquestelle.
«Anita e Benedetta, figlie mie e di Marco, insieme a Federico, il figlio che avevo avuto dal mio primo matrimonio, guardando centinaia di provini alla tv, selezionarono Rocco Casalino e gli altri partecipanti alla prima edizione del Grande fratello. Fu l’ultima mia esperienza nel campo delle produzioni televisive».
Come c’era arrivata la primogenita di Bettino Craxi a lavorare nel mondo della tv?
«Grazie o a causa del fatto che fossi la figlia di Bettino Craxi».
Cioè?
«Il mio sogno era sempre stato fare la giornalista, possibilmente l’inviata di guerra. Avevo avviato delle collaborazioni saltuarie firmando i pezzi col cognome di mia mamma. E tutte le volte che si arrivava al momento dell’assunzione, la risposta era: “Signorina, mi spiace, ma con un cognome così…”».
Anche nel momento in cui suo padre era presidente del Consiglio?
«Sempre».
In televisione com’era arrivata?
«Avevo iniziato a collaborare con TeleLombardia alla fine degli anni Settanta, per caso, dopo aver fatto da ufficio stampa a un evento sul cinema. Da lì, insieme alla mia amica del cuore Cinzia Liguori, ci inventammo un varietà che andava in onda a mezzanotte di sabato. Titolo: Quasi domenica. Il problema era, a quell’ora e senza una lira: chi sarebbe venuto ospite?».
Già.
«Lavorammo di fantasia e il programma ingranò».
Sì ma gli ospiti?
«Tra gli altri, alcuni sconosciuti di cui si sarebbe sentito parlare negli anni a venire: da Francesco Salvi a Silvio Orlando, da Claudio Bisio a Paolo Rossi e David Riondino…».
E poi?
«Grazie a un amico finii per essere ricevuta da Vittorio Moccagatta, capo delle relazioni esterne di quella TeleMilano 58 che di lì a poco si sarebbe trasformata in Canale 5. Lo spiraglio per fare la giornalista c’era, visto che stavano per lanciare un programma di informazione settimanale. Ma arrivata al cospetto del capo del personale si presentò l’ostacolo di sempre: “Signorina, sa, con quel cognome…”. Mi sarei ritrovata tempo dopo a fare la segretaria di produzione a Risatissima».
Conduceva Milly Carlucci insieme a Lino Banfi e molti altri: il primo grande successo della Fininvest berlusconiana.
«Senza dimenticare il Festivalbar, alla cui produzione lavoravo già dal 1983. Il padre a Palazzo Chigi, la figlia a fare una vita zingara appresso alla tv e ai cantanti, andando in giro con questa meravigliosa carovana. L’anno magico fu il 1985, quando conobbi Lucio Dalla: per i due anni successivi saremmo stati praticamente inseparabili. Sempre insieme, io, Lucio e tutti quelli che ruotavano attorno al suo mondo, da Bibi Ballandi a Ron, dagli Stadio a Renzo Cremonini».
Fu lei a presentare Dalla a suo padre?
«Sì. Si piacquero molto e presero a frequentarsi, anche con mio fratello Bobo. Telefonami tra vent’anni è stata scritta a casa nostra a Milano; Latin Lover, che fa parte dell’album Henna, fu scritta nella casa di Hammamet; e poi Milano, il cui testo era stato scritto su un’agendina mentre io, lui e mio padre stavamo mangiando assieme in un ristorante di Milano».
«Milano sguardo maligno di Dio / Zucchero e catrame».
«La sera del 19 gennaio del 2000, il giorno in cui morì mio padre, Lucio aveva un concerto a Milano. Aprì lo spettacolo proprio con Milano. E disse: “Oggi è morto un mio amico, gli dedico questa mia canzone”».
Tra qualche giorno saranno passati venticinque anni, un quarto di secolo, dalla morte di Bettino Craxi. Alla figlia Stefania hanno proposto di scrivere un libro. Che inizialmente non voleva fare ma che poi ha scritto di getto. Titolo: All’ombra della storia (Piemme).
Qual è la prima cosa che le torna in mente di suo padre, venticinque anni dopo?
«Forse la grande attenzione alle condizioni degli altri, ai bisogni che ai suoi occhi giustificavano qualsiasi tipo di miseria umana, anche la peggiore. Un giorno andò da lui Giancarlo Lehner, direttore de l’Avanti!, e gli disse: “Sai, Bettino, abbiamo scoperto che tre nostri giornalisti sono spie a libro paga del Kgb”. Mio padre guardò i nomi e rispose: “Uno ha una malattia grave, uno tre figli da mantenere, uno un mutuo da pagare. Sai che c’è? Lasciali stare, potrà mai cambiare la storia del mondo?”».
A proposito di soldi: la storia sul «tesoro di Craxi» ancora circola.
«Mio padre è morto senza una lira. Ho pagato io avvocati, medici, operazioni. Conservo ancora i biglietti scritti di suo pugno da Hammamet con le richieste di soldi. Il suo rapporto col denaro era totalmente legato alla politica: il denaro serviva per fare politica e non, come purtroppo qualcuno lo interpreta oggi, il contrario. Se aveva cinquantamila lire in tasca e trovava una persona a cui servivano, gliele regalava. Tolta la casa di Hammamet, non ha mai posseduto nulla. La nostra famiglia ha sempre vissuto al massimo della sobrietà: aveva sposato mia mamma raggiungendo il comune in tram e il tram era il mezzo con cui mia mamma ha continuato a girare per Milano sempre, anche quando il marito era il presidente del Consiglio».
Lo ha mai visto piangere?
«La prima volta fu la notte del Capodanno del 1980. Quando in Kenya, dov’eravamo in vacanza, venne raggiunto dalla notizia della morte di Pietro Nenni. Poi poche altre volte. E mai per la sua condizione di esule».
Per la giustizia italiana, latitante. Che cosa pensò quando vi disse che sarebbe andato in Tunisia per rimanerci?
«Mio padre non lo disse mai. Mia mamma e lui partirono il 5 maggio 1994, in pieno processo Enimont, a poche settimane dalle elezioni politiche vinte da Berlusconi, come se dovessero rientrare il giorno dopo. Puff, via: lasciata la casa, l’ufficio, Milano, la stanza del Raphael, come se fosse provvisorio».
Eugenio Scalfari aveva rivelato che i due, Nenni e suo padre, avevano rotto.
«Non era vero. Nel 1979, durante i primi mesi della sua segreteria, Craxi si trovò ad affrontare una riunione del comitato centrale del Psi con numeri ballerini e la sinistra interna che cercava di defenestrarlo. Nonostante fosse già stanco e malato, Nenni gli disse: “Io vado a letto. Ma se dovesse servire anche un solo voto, chiamami e io torno”».
Visti da vicino: Sandro Pertini.
«Una domenica accompagnai mio padre al Quirinale, dov’era stato convocato dal presidente della Repubblica. Il tempo di entrare e Pertini iniziò a urlare frasi irripetibili riferite alla presidente della Camera, Nilde Iotti, con cui ce l’aveva non so per che cosa. Nel pieno di questa bufera, si accorse che c’ero anche io. In mezzo secondo aveva cambiato volto, diventando il presidente buono amato dagli italiani».
Berlusconi.
«I miei furono suoi testimoni di nozze; mio padre e soprattutto mia mamma, che la adoravano, lo avevano convinto della bontà della decisione di sposare Veronica Lario. Una volta, a St. Moritz, sapendo che eravamo suoi ospiti, Gianni Agnelli si precipitò a casa. Silvio rintracciò mio padre, che era uscito. Ma Craxi gli rispose: “Digli che sono uscito a fare una passeggiata”. Per lui il primato della politica era tutto. Berlusconi, prima ovviamente di essere eletta in Parlamento con Forza Italia, l’ho anche incrociato sul lavoro. Marco e io proponemmo a Fininvest l’idea di un programma sulla falsariga di Giochi senza frontiere della Rai, amatissimo dal pubblico: il format l’avevamo chiamato Mare contro Mare, in omaggio a una vecchia edizione della trasmissione tv di giochi acquatici andata in onda nel 1965 sulla Rai, condotta da Aroldo Tieri e Silvana Pampanini. Berlusconi disse sì ma con due correzioni: “Mare contro mare non va bene, chiamiamolo Bellezze al bagno. E poi metteteci dodici ballerine per gli stacchi musicali e per segnare i punti”».
Andreotti.
«Nello storico viaggio in Cina del 1986, quando c’ero anche io, Andreotti, ministro degli Esteri, rilasciò la celebre dichiarazione luciferina all’Ansa: “Siamo qui con Craxi e i suoi cari”. Anni dopo ci chiarimmo. Andreotti fu importante per la storia di mio padre perché, paradossalmente, era la sua ultima speranza di essere riabilitato. Quando lo assolsero dall’associazione mafiosa, da un lato era contento, dall’altro capì che per lui era finita. Lo sentii dire: “Sono rimasto l’unico criminale nazionale”. La nostalgia del suo Paese gli provocava un dolore continuo e lancinante».
Lei era con suo padre quando morì. Se le ricorda le sue ultime parole?
«Disse che voleva riposare e mi chiese un caffè. Andai in cucina a prepararlo, aprii la porta della sua camera e lo vidi sul letto, stremato. Morì tra le mie braccia. Poco prima, ricordo che stavamo guardando in tv un programma con Paolo Limiti. A un certo punto partì un servizio su Gallipoli. Guardandolo, mio padre disse: “Ho girato tutta Italia ma non la conosco”».
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