di Antonio Carioti
La serie tv La Lunga Notte – La Caduta del Duce racconta le ultime ore del fascismo. Tra falsi miti e vere coltellate alle spalle, ecco la ricostruzione delle settimane che portarono all’arresto del Duce
Roma, 24 luglio 1943. Dino Grandi, fascista della prima ora, già ministro della Giustizia, scrive una lettera alla moglie Antonietta. «Sto andando alla riunione del Gran Consiglio dove, come sai, cercherò di rimuovere il Duce e ripristinare la Costituzione» scrive Grandi. Di lì a poche ore Benito Mussolini verrà arrestato: è la parola fine, per ora, sulla parabola del Duce.
Comincia così la serie tv La Lunga Notte – La Caduta del Duce, che ricostruisce le ultime settimane del fascismo. Ma cosa accadde davvero a Palazzo Venezia? E come si arrivò in pochi giorni a destituire un dittatore rimasto al potere per oltre 20 anni? Ripubblichiamo la ricostruzione di Antonio Carioti, giornalista del Corriere e autore di diversi libri su Mussolini e sul fascismo: il suo articolo su ciò che accadde luglio del 1943 è stato uno dei più apprezzati dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2024.Â
Bombe e parà : arrivano gli Alleati
Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 scatta nel Mediterraneo centrale la più vasta operazione aeronavale compiuta fino a quel momento. Preceduta da devastanti bombardamenti e da lanci di paracadutisti su punti strategici della Sicilia, un’immensa flotta anglo-americana si dirige verso l’isola. Dopo aver liquidato in maggio l’ultima disperata resistenza dell’Asse italo-tedesco sul territorio africano, in Tunisia, ora gli Alleati hanno intenzione di avviare la liberazione dell’Europa.
Nelle prime ore del 10 luglio comincia lo sbarco. L’8ª armata britannica, al comando di Bernard Law Montgomery, approda sulla costa siciliana sud-orientale, conquistando in breve tempo Pachino, Avola e Noto. La 7ª armata americana, guidata da George Patton si dispiega a sinistra dello schieramento alleato: prende Licata, Gela e Scoglitti.
La Sicilia è presidiata dalla 6ª armata italiana, affiancata da unità tedesche. Il comandante, generale Alfredo Guzzoni, dispone di circa 200 mila uomini, la maggior parte dei quali male armati e poco addestrati. L’unica reazione degna di nota nella prima fase dei combattimenti è un attacco contro gli americani della divisione Livorno nella zona di Gela, che ottiene l’11 luglio qualche successo, ma viene stroncato dall’artiglieria navale della flotta alleata.
Mussolini aveva promesso: «Li fermeremo sul bagnasciuga!»
Benito Mussolini, nell’ultimo discorso tenuto a Palazzo Venezia (ma all’interno dell’edificio, non dal balcone), aveva promesso ben altro. Il 24 giugno 1943, parlando al direttorio del Partito nazionale fascista (Pnf), aveva fatto appello a tutte le energie del popolo e delle forze armate, mentre lo stesso giorno, in Campidoglio, il filosofo Giovanni Gentile confermava il suo pieno appoggio allo sforzo bellico.
Se il nemico cercherà di sbarcare in territorio italiano, aveva detto il dittatore, bisogna «che sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga, la linea della sabbia, dove l’acqua finisce e comincia la terra». Se poi gli Alleati dovessero penetrare all’interno, aveva aggiunto, occorre che le forze di riserva «si precipitino sugli sbarcati, annientandoli sino all’ultimo uomo», di modo che essi rimangano «per sempre in una posizione orizzontale, non verticale».
La cavalcata di Patton e il mistero sul ruolo della mafia Nulla di tutto ciò. Nel giro di quattro giorni gli anglo-americani riversano 160 mila uomini in Sicilia e avanzano all’interno dell’isola. Se Montgomery, nella piana di Catania, incontra una resistenza ostinata da parte italo-tedesca, a ovest Patton procede speditamente in direzione di Palermo, senza incontrare ostacoli di rilievo. Entrerà in città il 22 luglio.
Si è detto spesso che gli Alleati furono agevolati dal contributo della mafia, contattata attraverso le famiglie malavitose del Nord America, ma lo storico Salvatore Lupo, nel saggio Il mito del grande complotto (Donzelli), ha ampiamente dimostrato che questa narrazione dietrologica non è sorretta da prove concrete. Del resto gli anglo-americani disponevano di una netta superiorità militare e non avevano certo bisogno di supporti criminali per conquistare l’isola.
Qui Roma: il Duce silura il genero
Intanto a Roma il regime fascista ha ormai l’acqua alla gola. Mussolini il 5 febbraio 1943 ha effettuato un ampio rimpasto di governo, estromettendo dall’esecutivo alcuni dei personaggi di maggior spicco. Dino Grandi ha perso il ministero della Giustizia, Giuseppe Bottai quello dell’Educazione nazionale. Ma la mossa più clamorosa è stata il siluramento di Galeazzo Ciano, che era agli Esteri dal 1936. Il Duce ha riassunto la titolarità personale di quel dicastero chiave e il suo genero (Ciano ne ha sposato la figlia Edda Mussolini) è finito a fare l’ambasciatore presso la Santa Sede.
Non si tratta di una mossa molto indovinata. Così alcuni dei gerarchi più brillanti si convincono ancor di più che bisogna sbarazzarsi di Mussolini. E altrettanto infelice si rivelerà la decisione del Duce di sostituire il capo di stato maggiore generale delle forze armate, Ugo Cavallero, con Vittorio Ambrosio, che comincia subito a cospirare contro il dittatore.
Il fallimento della «guerra parallela» Che la guerra sia perduta, era chiaro già prima che le armate angloamericane investissero la Sicilia. Mussolini il 10 giugno 1940 era intervenuto nel conflitto sulla scia dei successi fulminanti del suo alleato Adolf Hitler. Sperava di condurre nel Mediterraneo una «guerra parallela» rispetto a quella dei tedeschi, ma in breve tempo, con i primi disastri in Grecia e in Africa, è apparso chiaro che si trattava di un’ambizione illusoria.
L’Italia è così finita ben presto a rimorchio del Terzo Reich. E le sconfitte pesantissime a El Alamein, in Egitto, e in Russia, sul fiume Don, ne hanno sostanzialmente annientato le capacità militari. Ora siamo alla resa dei conti: anche il fronte interno vacilla, come hanno dimostrato, nel marzo 1943, gli scioperi di massa nelle fabbriche del Settentrione. Bisogna staccarsi dalla Germania e ben difficilmente si può farlo finché il Duce resta in sella: Londra e Washington hanno chiarito che con lui non intendono trattare e pretendono la resa incondizionata.
In Sicilia la situazione precipita, e intanto Grandi e Farinacci…
Come liberarsi di Mussolini? Rispunta il maresciallo Badoglio La Roma del luglio 1943 è tutto un succedersi di trame, conciliaboli, ipotesi di soluzioni da dare alla crisi. Per farla finita con Mussolini bisogna passare necessariamente per il re Vittorio Emanuele III, che è pur sempre capo dello Stato e, a norma della Costituzione (lo Statuto albertino del 1848), può sostituire il vertice del governo. Quindi i militari sollecitano il sovrano, che tuttavia esita e traccheggia: per vent’anni ha assecondato ogni decisione del Duce, anche quelle che tendevano a esautorarlo, e adesso gli manca il coraggio per prendere in mano la situazione.
Riemerge intanto, sia pure nell’ombra, la figura di Pietro Badoglio. L’anziano maresciallo piemontese (è nato nel 1871) ha pagato a suo tempo il clamoroso insuccesso della guerra in Grecia. L’invasione italiana, avviata nell’ottobre 1940, è completamente fallita: solo l’intervento tedesco, nell’aprile 1941, avrebbe costretto Atene ad arrendersi. Nel frattempo Mussolini ha scelto come capro espiatorio Badoglio, esonerandolo dalla carica di capo di stato maggiore generale nel dicembre 1940. Il maresciallo si è allora ritirato a vita privata: adesso, nel luglio 1943, l’immagine piuttosto fittizia di «vittima» del Duce può tornargli utile per le sue ambizioni.
Mentre in Sicilia la situazione si aggrava, il nuovo segretario del Pnf Carlo Scorza, nominato da Mussolini il 19 aprile 1943, decide di mobilitare i gerarchi, esortandoli a presiedere adunate da tenersi nelle principali città d’Italia onde chiamare il popolo alla resistenza contro l’invasore. Ma alcuni dei convocati nicchiano, o addirittura rifiutano: per esempio Grandi, ex ministro e presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che ha sostituito quella dei deputati; ma anche Roberto Farinacci, il più estremista, antisemita e filonazista degli alti papaveri fascisti.
Allora Scorza convoca a Roma alla mattina del 16 luglio, nella sede nazionale del partito, un incontro con i gerarchi per ragionare sul da farsi. E nel corso della riunione si fa strada la proposta di chiedere udienza al Duce. Il dittatore accetta e nel pomeriggio tutti si trasferiscono a Palazzo Venezia. Qui viene avanzata la proposta di convocare il Gran Consiglio del fascismo, che in teoria è l’organo supremo del regime.
I fiumi di parole di Hitler, le bombe alleate a Roma
Le grandi manovre e il Gran ConsiglioIn realtà Mussolini nel corso del Ventennio ha largamente esautorato quel consesso, che ha sempre posto davanti al fatto compiuto. Del resto l’ultima riunione del Gran Consiglio si è tenuta addirittura nel dicembre 1939, quando l’Italia non era ancora entrata in guerra. Poi per tre anni e mezzo non se n’è più parlato. Ma ora la situazione è diassoluta emergenza e Mussolini accetta di convocarlo per il tardo pomeriggio del 24 luglio.
A questo punto cominciano le grandi manovre di chi ritiene opportuna una svolta radicale nella conduzione della guerra e nella gestione del regime. Lo stesso Duce è consapevole che non si può andare avanti così. La sua tesi è che la Germania dovrebbe concludere un armistizio, o addirittura una pace separata, con l’Unione Sovietica, per poter impegnare in Occidente, contro gli anglo-americani, le forze immense impiegate al momento sul fronte orientale. Pura fantascienza, dato che Hitler considera assolutamente prioritaria la campagna per annientare il «bolscevismo giudaico».
Lo si vede bene nel corso del colloquio che i due dittatori hanno il 19 luglio 1943 a Villa Gaggia, in località San Fermo di Belluno, e che passerà alla storia come «incontro di Feltre». Il Führer, la cui lucidità comincia a vacillare, investe Mussolini con un fiume di parole, lamentando lo scarso impegno dell’Italia nella lotta titanica che si va combattendo per il futuro dell’Europa. Il Duce non interloquisce un granché, appare rassegnato. Ela notizia che gli Alleati stanno bombardando pesantemente Roma lo induce a lasciare in anticipo l’inutile vertice a due.
Gli anglo-americani colpiscono la capitale senza pietà . E Mussolini, sulla via del ritorno in aereo, assiste allo spettacolo del fumo degli incendi che si leva alto nel cielo. In particolare viene bersagliato il quartiere popolare di San Lorenzo. Le stime circa le vittime variano da un minimo di 1.600 a un massimo di tremila. Quando il re si reca nel rione per portare la propria solidarietà , viene accolto con indifferenza, anzi fastidio. Più tardi arriva il papa Pio XII e la folla lo acclama invocando la pace.
Il Gran Consiglio: chi sono i «congiurati»
Cosa voleva fare Grandi con quell’ordine del giorno? Anche il Duce sa che non si può proseguire la guerra. Così la mattina del 22 luglio va dal re e gli assicura che entro settembre conta di staccare l’Italia dall’abbraccio mortale con il Terzo Reich: dice di essere il solo, per il suo rapporto personale con Hitler, che può riuscire nell’impresa. Il pomeriggio dello stesso 22 luglio Mussolini riceve Grandi, il quale gli espone i contenuti di un ordine del giorno che intende presentare al Gran Consiglio e che si prepara a far circolare tra i gerarchi.
Il fulcro del documento è la richiesta che Vittorio Emanuele IIIriassuma personalmente il comando delle forze armate operanti, che aveva delegato al Duce nel 1940, subito dopo la dichiarazione di guerra. In sostanza si tratta di ristabilire la normalità costituzionale, rimediando a uno dei più vistosi fra i tanti strappi compiuti dal fascismo nelle prerogative del sovrano. Intendeva in tal modo Grandi provocare la caduta del regime? Lui retrospettivamente dirà di sì, ma lo storico Emilio Gentile nel libro 25 luglio 1943 (Laterza), sulla base di una documentazione inedita, sostiene che l’intento non era affatto così chiaro: appare più probabile che i firmatari volessero soltanto promuovere un riequilibrio dei poteri.
Alle ore 17 del 24 luglio 1943 comincia la seduta del Gran Consiglio. Non esiste un verbale ufficiale della riunione, quindi non è possibile ricostruirne con certezza l’andamento. Di sicuro Grandi presenta il suo ordine del giorno, che tra l’altro invita il re a esercitare «quella suprema iniziativa di decisioni che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono». Il testo reca diciannove firme, maggioranza assoluta dei membri del Gran Consiglio. Nomi prestigiosi come Bottai, Ciano, l’ex ministro dell’Interno Luigi Federzoni, l’ex ministro delle Finanze Alberto De Stefani, i due quadrumviri superstiti della marcia su Roma, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi.
Ci sono poi altri due ordini del giorno. Uno presentato da Scorza, piuttosto vago circa i provvedimenti da assumere per far fronte all’emergenza, e un altro firmato dal solo Farinacci, vicino ai tedeschi, che sottolinea la necessità di persistere «nell’osservanza delle alleanze concluse» con il Terzo Reich.
I moniti del Duce (ma li pronunciò davvero?)
Va sottolineato che Mussolini non è affatto tenuto a mettere in votazione uno o più documenti. Nelle precedenti sedute del Gran Consiglio, in totale ben 185 dal 1923 in poi, non era mai accaduto che si votasse. Ma questa volta succede e il testo di Grandi passa con diciannove sì su ventotto presenti. Inutile a quel punto mettere ai voti gli altri ordini del giorno.
Nel 1944 il Duce, durante la sua ultima avventura di Salò, riferirà di aver pronunciato in quell’occasione due frasi rimaste celebri. Durante il dibattito avrebbe detto: «Signori attenzione! L’ordine del giorno Grandi può mettere in gioco l’esistenza del regime». E dopo la votazione, avvenuta intorno alle 2.30 di notte del 25 luglio, avrebbe ribadito: «Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta!».
In realtà , alla luce del vaglio attento compiuto da Emilio Gentile sulle testimonianze, spesso contraddittorie, e sui documenti disponibili, pare che quei due moniti Mussolini non li abbia affatto lanciati, anche se spesso li si sente ripetere nelle più comuni rievocazioni. Del resto si tratta di parole poco compatibili con il contegno passivo e rassegnato tenuto dal dittatore nel corso della riunione. Nulla per esempio gli avrebbe impedito di rinviare la seduta, ma non lo fa.
Mussolini, arrestato, fa gli auguri a Badoglio (ma cambierà idea) Che Grandi e gli altri volessero o no liquidare il regime, l’effetto è quello, perché l’indomani Vittorio Emanuele III coglie l’occasione per far scattare il piano dei militari che prevede il cambio di governo. Quando Mussolini si reca dal re a Villa Savoia, alle 17 del 25 luglio 1943, il sovrano gli annuncia che ha deciso di sostituirlo. All’uscita l’ormai ex dittatore viene fermato dai carabinieri, che lo caricano su un’autoambulanza e lo portano in una caserma.
Alle 22.45 viene annunciata la nomina di Badoglio come nuovo capo del governo. Il maresciallo, in perfetta malafede, dichiara che «la guerra continua». Ma gli italiani capiscono tutti che si avvicina la pace e scendono nelle strade prendendo di mira i simboli del fascismo. Nel giro di pochi giorni il Pnf verrà sciolto senza suscitare alcuna reazione: è ormai un guscio vuoto.
Anche Mussolini sembra accettare la sorte avversa. Intorno all’una di notte del 26 luglio riceve una lettera di Badoglio, che sostiene di averlo fatto arrestare solo per garantirne la sicurezza personale. Il dittatore spodestato risponde subito con deferenza e augura al maresciallo di avere successo nel compito affidatogli dal re, del quale, scrive il fondatore dei Fasci, «durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango». Penseranno i tedeschi, liberandolo, a fargli cambiare idea.
La Lunga Notte: trama, cast e anticipazioni
La serie tv La Lunga Notte – La Caduta del Duce comincia dalla fine. Sono le 17 di sabato 24 luglio 1943 quando i gerarchi fascisti si ritrovano al tavolo del Gran Consiglio. L’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che verrà votato a maggioranza, metterà fine alla dittatura di Benito Mussolini. Un destino già scritto nel momento in cui, due settimane prima, le truppe alleate erano sbarcate in Sicilia.
La regia della serie è di Giacomo Campiotti. Nel ruolo dei protagonisti ci sono Alessio Boni (Dino Grandi) e Duccio Camerini (Benito Mussolini). Nel cast anche Ana Caterina Morariu, Aurora Ruffino, Marco Foschi, Lucrezia Guidone e Martina Stella nei panni di Claretta Petacci (qui l’intervista di Giovanna Cavalli).
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