Fulvio De Nigris, papà di Luca e della Casa dei Risvegli: «Mio figlio morì all’improvviso, lo vedo rivivere in chi entra ed esce dal coma»

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di
Micaela Romagnoli

Ha fondato l’associazione «Gli Amici di Luca» e nel 2004 è stata inaugurata a Bologna la struttura che ha ospitato finora 600 pazienti colpiti da gravi cerebrolesioni acquisite: «Se altre persone ce la fanno è anche grazie a Luca»

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Era la mattina dell’8 gennaio 1998 quella in cui Luca De Nigris, ragazzino bolognese di 15 anni, non si risvegliò più, improvvisamente. Fulvio e Maria, i suoi genitori, sono stati capaci di trasformare una vicenda personale di dolore in una storia collettiva, di vite e di altri risvegli. 

A Luca da neonato era stata diagnosticata una forma di idrocefalia: «Aveva qualche problema di tipo fisico, aveva subito un primo intervento chirurgico già a pochi mesi — racconta Fulvio, il papà — a 15 anni era un ragazzo molto intelligente che frequentava il liceo classico Minghetti, appassionato di cinema, fumetti e teatro. Si è dovuto sottoporre a un’operazione definita di routine, prima di affrontare quella più impegnativa che avrebbe dovuto fissare la colonna vertebrale, ma dopo quell’intervento Luca era in coma».




















































Dall’esperienza del suo coma, durata 240 giorni, è nata l’associazione «Gli Amici di Luca» e, mattone dopo mattone, nel 2004 è stata inaugurata la «Casa dei Risvegli» a lui dedicata, che ha ospitato finora 600 pazienti colpiti da gravi cerebrolesioni acquisite, struttura pubblica d’eccellenza dell’Ausl di Bologna, specializzata per la fase riabilitativa delle persone in stato vegetativo, di minima coscienza e in lento recupero.

Fulvio De Nigris, presidente della Fondazione «Gli Amici di Luca Casa dei Risvegli Luca De Nigris» come siete riusciti a far germogliare tutto questo dal dramma della morte di un figlio?
«È stato sorprendente anche per noi ed è avvenuto naturalmente. Dopo quell’intervento Luca era in coma. Maria, la sua mamma, ed io ci siamo trovati in una dimensione sconosciuta, davanti a un limite, quello della possibile morte di Luca. Abbiamo cominciato a capire cosa volesse dire stare vicino a un ragazzino che sembrava non poter comunicare. Addirittura ci avevano proposto una Rsa come soluzione: un quindicenne in una struttura per anziani. Non ci siamo mai voluti arrendere anche se ci dicevano che non c’erano speranze. Tanti amici e colleghi si sono uniti e così nacque il comitato “Amici di Luca”, con l’obiettivo di raccogliere fondi per portare Luca all’estero in Austria, dove c’era un luminare che aveva già trattato molti casi come il suo».

Cosa accadde?
«Cominciammo a capire che Bologna era una città molto solidale, reattiva, molto inclusiva e che sapeva fare del bene. Era il 1997 e raccogliemmo 120 milioni di vecchie lire. La vicenda ebbe risonanza, tanto che la Regione e l’Ausl ci riconobbero poi l’80% delle spese sostenute. Luca si svegliò dal coma in Austria, tornammo a Bologna prima di Natale con le dimissioni terapeutiche; era in ripresa, cominciava a fare i primi passi, ma la notte tra il 7 e l’8 gennaio morì nel sonno. Così come improvvisamente era andato in coma, improvvisamente morì. Erano rimasti circa 80 milioni di lire dalla raccolta e venne l’idea di questa Casa dei Risvegli. Si partì attorno a un tavolo con l’azienda Usl di Bologna, con l’allora primario del Maggiore, riunimmo tutte le conoscenze che avevamo, dal pedagogista Andrea Canevaro ad Alessandro Bergonzoni, che abbracciò subito la nostra causa. Un percorso naturale, un fiume fluido».

Quel dolore cosa è diventato?

«Il dolore è come un diamante incastonato dentro di noi, che alimenta questo senso di struggimento, perché sono ferite che non si rimarginano, ma diventano ferite calde, che ti consolano. Quel dolore è dentro ed è riuscito a trasformarsi in qualcosa di positivo. Come genitori avremmo potuto fare un’altra scelta, quella della rivalsa, della rivendicazione, di accuse di malasanità. Invece, abbiamo preferito la strada consolatoria, del nostro abbraccio verso Luca; di Luca che vive dentro di noi e nella Casa dei Risvegli: negli occhi di persone che entrano in coma, magari si svegliano e ce la fanno, noi vediamo che Luca è ancora vivo. Se altre persone ce la fanno è anche grazie a Luca. I suoi sogni e le sue aspirazioni non si sono realizzate, la sua vita l’abbiamo introiettata perché vivessimo anche per lui. Non è la stessa cosa, ma è consolatorio e dà molta speranza agli altri. E come ripeto spesso, se Luca non fosse morto in Emilia-Romagna, ma in un’altra regione, probabilmente oggi non avremmo la Casa dei Risvegli».

Perché?
«È stata una confluenza di buon e pratiche e buoni principi, di una cultura dell’abbraccio, questo è quello che fa la differenza dell’Emilia».

Cosa succede ogni giorno nella Casa dei Risvegli?
«Abbiamo dieci moduli abitativi nei quali un familiare può stare con il proprio caro come se fossero a casa propria, massimo per un anno, in media per sei mesi. Ci sono i pedagogisti che formano la famiglia nel percorso di cura, c’è un team medico e di operatori sanitari specializzato; facciamo arte terapia, musico terapia, teatro, per riallacciare il filo con la vita. Si stringe un patto di cura con i familiari del paziente: anche la famiglia è curata e curante se riesce a mettere in campo le sue risorse».

Qual è il bilancio?
«Nell’80% dei casi gli ospiti tornano a casa e dovranno essere attrezzati per seguire un nuovo percorso. La speranza è molto alta quando si entra alla Casa dei Risvegli, ma dobbiamo anche essere preparati a quando l’obiettivo non si raggiunge: dobbiamo pensare che queste vite, che qualcuno può pensare di serie b, sono vite come le altre, che vanno rispettate e sostenute in una società includente. Adesso abbiamo un ragazzo di 18 anni che dopo un grave incidente si sta riprendendo, forse non vedrà più, avrà bisogno di ausili e di grande forza per tornare alla vita. C’è molto da fare, da sostenere, anche dal punto di vista economico».

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In tutti questi anni, cosa ha compreso del coma?
«Il Cardinale Zuppi viene spesso in visita e dice che c’è molta più vita alla Casa dei Risvegli che altrove. Lo capisco. Anche io, che sono laico, penso che il coma mi abbia fatto capire il miracolo, nel senso del cambiamento: del risveglio quando avviene, o il cambiamento della vita che costringe le persone e le famiglie a tirare fuori energie incredibili. Ho imparato che si può comunicare in tantissimi altri modi, come Monica ed Ermanno, lui in stato vegetativo per molti anni, che con la moglie erano capaci di una comunicazione fatta di altri codici. Lo vedevo anche con Luca, che comunicava con un dito indicando delle lettere: dalle domande alle risposte passava moltissimo tempo, eppure le risposte arrivavano. Ci vuole grande pazienza, intelligenza affettiva, bisogna essere predisposti a trovare un’altra condizione di ascolto».

Qual è il futuro della Casa dei Risvegli?
«Fin da subito tante persone hanno abbracciato la Casa. Ora l’associazione è diventata Fondazione proprio per consegnare al futuro un bene della comunità, un patrimonio che deve essere valorizzato dai politici, dagli imprenditori, a quali ci appelliamo perché entrino in Fondazione. Serve un consolidamento, la capacità di raccogliere fondi per tutti i progetti che abbiamo. La vera speranza per le famiglie sta nella ricerca, bisogna fare ricerca anche su questi temi, ricerca sulla coscienza e sugli ausili di cui c’è bisogno quando si torna a casa, dalla telemedicina alla robotica. Anche il percorso del dopo è la grande sfida, dobbiamo fare in modo che tutti possano avere le stesse possibilità di cura».

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5 gennaio 2025

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