Fiber art, l’artista cagliaritana Tiziana Contu e il telaio che mette al mondo creature

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L’esponente della Fiber art si racconta a Sardinia Post

di Alessandra Piredda

“Sono la figlia di un carrozziere e di una sarta, due artigiani che hanno influenzato la mia formazione, è anche grazie a loro che ho capito di essere nata per muovere le mani”. Così l’artista cagliaritana Tiziana Contu a Sardiniapost. Il suo percorso di formazione non nasce in Accademia ma dalla sua esperienza di vita che l’ha forgiata fino a rendere un percorso interiore manifesto.

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“Sono nata con una malformazione alle cornee – racconta -. Oggi ‘vedo’ il mondo con occhi nuovi grazie ai due trapianti di cornea. Nel ’95 mi sono sottoposta al primo (il secondo è avvenuto relativamente di recente a Venezia, città che considero una seconda casa). Per tre mesi la mia vita si è fermata. Da quel momento tutto è cambiato. È stato per me un periodo di buio da ogni punto di vista. All’epoca ero sposata con un uomo molto più grande di me. Avevo il mio bel lavoro in banca, le mie certezze ma non ero felice. Ero una donna in carriera e una brava moglie”.

Una vita soddisfacente e perfetta almeno in apparenza. Cosa le è mancato?
“Mi mancava l’aria e la mia giovinezza mai vissuta fino in fondo per non scontentare nessuno. La mia condizione di salute (seppur in maniera temporanea) mi ha portata a una solitudine che non avevo mai sperimentato. Così ho messo in discussione tutto quello che avevo costruito fino a quel momento. È stato lì che ho preso in mano la mia vita e ho chiuso dei capitoli (non senza dolore) per ripartire con nuove consapevolezze e soprattutto da me. Ho iniziato a cantare, e a dare spazio a un’altra passione: la tessitura. Sono stata per un mese intero in Tibet e avrei voluto passare lì tutta la vita. Quel viaggio mi ha cambiato nel profondo.Ho continuato a lavorare in banca fino a quando ho capito che non volevo un ruolo dirigenziale”.

Dalla banca commerciale ai successi in giro per l’Europa con le mostre personali a Cagliari, Venezia, Torino, Amsterdam, Milano, Parigi. Cos’è che unisce le due facce di una stessa medaglia?
“Ho un passato da ragioniera e mio padre voleva per me il classico ‘posto sicuro’. Ero iscritta in pedagogia. Ma ho mollato per il posto in banca, come voleva lui. La mia famiglia non mi ha mai incoraggiata a occuparmi di arte. Anche se l’ho sempre fatto in forma molto privata. Ai miei genitori devo in qualche maniera la mia ‘iniziazione’ artistica: a mio padre l’amore per i colori e le texture, a mia madre l’arte della precisione. Cucivo i vestiti per le mie bambole e se non erano perfetti lei disfava tutto, in modo che fossi costretta a ricominciare con grande meticolosità e cura. Mi sono sempre occupata di arte ma erano ‘cose mie’ e del mio laboratorio. Ho iniziato a condividere le mie opere grazie a Pierluigi Piu, il mio compagno”.

Il vostro è stato un incontro nell’età della maturità. Lei crede esista il caso?
“Ci presentò una cara amica. Credo di essere stata la protagonista di una serie di eventi che hanno portato al nostro incontro, per me (spero anche per lui) determinante e non solo per la mia carriera artistica. Lui (che ha ritirato premi in tutto il mondo perché è un’eccellenza nel suo lavoro) ha creduto in me e mi ha incoraggiata ad esporre le mie creazioni. Ho iniziato con una personale nel 2008, ’La filosofia del ragno’ al T Hotel”.

Paolo Marras e Luciano Ghersi sono i due uomini (oltre al suo compagno di vita) fondamentali per la sua formazione e crescita artistica.
“Ho iniziato con lo studio della ceramica, approfondendo fra l’altro la lavorazione al tornio, e la tecnica ‘raku’. Poi sono passata alla tessitura con il maestro Paolo Marras. In seguito ho approfondito lo studio col telaio africano ‘ewe’ da Luciano Ghersi, fatto con blocchetti di cemento (Fondazione Lisio, Firenze). Ghersi è un genio: è l’inventore della ‘brandemaglia’. Tesse con originali materiali di recupero e grande fantasia”.

Una coperta troppo corta’ è una delle sue opere più famose, presentata alla Fondazione Siotto di Cagliari e vincitrice del Leile Art Award 2022 di Amsterdam (con la curatela di Alice Deledda e Caterina Ghisu, e l’allestimento del suo compagno e celebre architetto Pierluigi Piu (utilizzando un cavallo di Frisia).
“È stato un lavoro lungo e paziente. Un ‘opera ingombrante anche per il suo significato politico. Ho stampato le frasi della Torah (non conosco la lingua ebraica e ho lavorato solo sul segno grafico) e vi ho sovrapposto le immagini dei volti dei deportati, che conservavo da tempo nel mio repertorio di immagini. Ridotto il tutto in strisce sottili, come una Filomena nelle Metamorfosi di Ovidio, ho cercato di raccontare, una brutta storia mai troppo raccontata. Ho intessuto una tela dai cui intrecci fra trama e ordito, emergono i visi di alcune fra i milioni di vittime; fisionomie perfettamente ricomposte nella parte centrale e via via rese meno nitide e riconoscibili dallo sfalsamento dell’intreccio verso i bordi, sino all’emergere di parti isolate come un occhio, un naso o una bocca, a rappresentare la progressiva dissoluzione di un uomo e di un intero popolo”.

Amore e amicizia si intersecano nella sua biografia e nelle sue opere. Caterina Ghisu è anche la curatrice dell’opera ‘Parole in scatola’ in esposizione a Venezia nello spazio Visioni Altre nel 2018, oggi al T Hotel fino al 30 gennaio 2025.
“Il mio incontro con Caterina è avvenuto in banca Cis, opera architettonica di Renzo Piano, durante un evento dedicato ai ragazzi del liceo artistico di Cagliari, in cui lei aveva il ruolo di tutor. Non avrei mai pensato di incontrarla e che diventasse la curatrice delle mie opere. E in qualche maniera riconosco che anche il mio percorso alla banca commerciale è stato foriero di incontri a cui ero destinata, e ringrazio anche per questa splendida amicizia. Forse anche per questo sono riuscita a portare avanti due carriere in qualche modo complementari. Facevo un lavoro molto faticoso. Fare arte mi ha permesso di lavorare in banca con uno sguardo creativo.

Esiste un’opera d’arte che la ispira o l’ha ispirata?
“Si, esiste, eccome. Si tratta di un libro: ‘Il filo del pensiero’ di Francesca Rigotti. È un saggio di fondamentale importanza per me. Il farsi metaforico del filo, trama e intreccio che evocano l’ambito morale e quello materiale. Un percorso (caro anche a Maria Lai) in cui filare, pensare, scrivere, sono tutte azioni necessarie per dare una forma, un senso e una direzione. Lino, cotone, lana, con la loro evoluzione materiale e tecnica rappresentano anche l’evoluzione sociale, compresa la mia. Non ho avuto figli per scelta. E ho capito che la tessitura è stata il mezzo attraverso cui ho elaborato la cosa. Il mio telaio a tensione (legato in vita) mi consente di mettere al mondo ‘creature’ che arrivano da una ricerca viscerale di emozioni e stati d’animo che mi travolgono completamente. Oggi vivo di contatti e di relazioni talmente appaganti che non potrei chiedere di meglio alla vita”.

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