«Condonare i debiti dei Paesi poveri è interesse dell’Europa»

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Terminato il mandato di commissario europeo all’Economia nella prima squadra di Ursula von der Leyen, Paolo Gentiloni è stato subito nominato da Antonio Guterres co-presidente della task force dell’Onu che è chiamata ad affrontare la crisi del debito dei Paesi in via di sviluppo. Un compito per il quale l’ex premier ha dato la propria disponibilità incontrando Guterres già nell’ottobre scorso, nella consapevolezza che «il debito di questi Paesi, in particolare di quelli africani, rappresenti un’ipoteca sul nostro futuro e che la dimensione del problema sia in larga parte sottovalutata».

Gentiloni, la questione del debito dei Paesi in via di sviluppo era molto sentita dall’opinione pubblica nei primi anni 2000, mentre ora sembra quasi dimenticata. È così?

È vero. Ma dobbiamo ricordare e considerare che la dimensione del debito accumulato dai Paesi in via di sviluppo è enormemente cresciuta e non è paragonabile a quella di venticinque anni fa.

Ma quanto è cresciuto? E da dove viene questo aumento di volume?

Nell’ultimo decennio il debito di questi Paesi è più che triplicato e nel 2023 ha superato i 1.500 miliardi. Nel 40 per cento dei Paesi in via di sviluppo si registrano sofferenze rispetto al proprio debito e dal 2020 ben 11 Stati hanno subito un default finanziario. La dimensione è enorme e per diversi motivi: i costi della transizione climatica, il Covid e da ultimo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha aumentato l’inflazione e i tassi di interesse globali.

Per quale motivo la questione riguarda anche noi europei?

Perché il rischio di una situazione di squilibrio può pregiudicare le prospettive stesse di uno sviluppo umano, fissate con l’agenda 2030 delle Nazioni unite. Sugli obiettivi dello sviluppo sostenibile si sono fatti molti progressi fino a qualche anno fa. Ma ora i progressi sono fermi e si moltiplicano i passi indietro. Come europei, abbiamo giustamente in mente la dimensione orizzontale delle crisi geopolitiche attuali, i rapporti con la Russia, il sostegno necessario all’Ucraina. Ma non possiamo dimenticare la dimensione verticale, quella che si muove sulla direttrice Europa-Mediterraneo-Africa. Una area in cui vivranno alcuni miliardi di persone nei prossimi decenni e dalla quale dipende anche la prospettiva del nostro sviluppo, non solo per i processi migratori ma per le nostre strategie economiche. Non possiamo pensare di salvarci in un mondo attraversato da crisi economiche e ambientali devastanti.

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C’è un nesso tra la crisi del debito e la questione dei flussi migratori?

Tutte le situazioni di crisi che vivono i Paesi africani possono avere un’influenza sui flussi migratori nel Mediterraneo. Credo però che non possiamo leggere le sfide che affrontano i Paesi in via di sviluppo solo con la lente dell’immigrazione. Per noi europei il rapporto di cooperazione con l’Africa rappresenta il futuro al di là dei processi di migrazione. Il problema è concreto: l’accumulo di debito mette sotto pressione una buona metà dei Paesi africani. Solo quest’anno il servizio del debito costerà all’Africa 160 miliardi di dollari, una cifra enorme, che peraltro deve fare i conti con il cambiamento della natura di questo debito rispetto al secolo scorso.

In cosa consiste questo cambiamento?

Un tempo buona parte dei creditori di questi Paesi erano, semplificando, i governi degli Stati allora più ricchi. Un gruppo di Stati rappresentati nel Club di Parigi e che copriva più della metà del debito africano. Oggi lo stesso gruppo rappresenta appena il 10% del debito africano. La principale novità consiste nel fatto che oltre il 40% del debito si riferisce a creditori privati, come i grandi gruppi multinazionali, mentre il principale creditore pubblico nei confronti dell’Africa è la Cina (che del Club di Parigi non fa parte).

Quando il Papa parla di «cancellare il debito» indica una strada realmente percorribile a suo avviso?

C’è grande attenzione nei confronti dell’appello del Santo Padre per la remissione del debito. Se ne parla nelle sedi internazionali e credo che questo contribuisca a una presa di coscienza del problema, che è fondamentale.

Ma in concreto come si può intervenire per ridurre il debito di questi Paesi?

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Tra gli strumenti più adatti c’è la sospensione del servizio del debito (l’ammontare dei pagamenti per interessi e rate di quota capitale, ndr). C’è stato già un precedente con la decisione del G20 per una sospensione nell’epoca del Covid (durata tre anni). Ora è importante che riprenda una discussione per nuove forme di sospensione, legate a circostanze e obiettivi definiti. E per affrontare i bisogni di liquidità più urgenti con il lavoro del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Bisogna in realtà fare di più, puntando a una revisione del “Common Framework” del G20: questo strumento disegnato per affrontare le crisi del debito ha mostrato i suoi limiti. Ma tradurre questa aspirazione di riforma in una dimensione concreta richiede una grande intesa internazionale. Ed è necessario coinvolgere nella strategia i creditori privati interessati e la Cina. In questione sarà anche la durata dei prestiti – quelli a breve termine sono troppo onerosi – e la possibilità di ammetterne in valute locali. E infine stiamo discutendo i criteri per analizzare la sostenibilità del debito, criteri che molti Paesi africani non condividono.

Qual è il nostro interesse geopolitico in questa strategia?

Noi europei abbiamo interesse allo sviluppo sostenibile, ma dobbiamo capire che non si potrà mai raggiungere se enormi parti del pianeta restano indietro. Per di più viviamo una fase storica a rischio di protezionismi e il Sud globale può essere un prezioso alleato dell’Europa e del suo ruolo a difesa di un ordine multilaterale e di economie aperte agli scambi. Se dovesse prevalere una logica da nuova guerra fredda o da guerre commerciali, i primi a soffrirne sarebbero i Paesi meno sviluppati, quindi c’è uno spazio geopolitico che credo debba spingere Italia e Europa a considerare il sostegno allo sviluppo di questi Paesi come un impegno prioritario.

Serve un’Europa più forte per centrare l’obiettivo?

Serve un‘Europa che abbia coscienza del proprio ruolo di attore politico globale, il che ha a che fare con la difesa, l’ambiente e il modello di sviluppo che abbiamo intenzione di promuovere.

Le crisi in Francia e in Germania hanno un effetto su questa situazione?

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Credo che la Commissione e le istituzioni comunitarie debbano prendersi l’onere di rappresentare questo ruolo anche in una situazione complessa come l’attuale. Il mondo non aspetta la soluzione di problemi interni a singoli Paesi europei.

E il ritorno dei nazionalismi in Europa danneggia questa strategia?

Il problema del debito del Paesi in via di sviluppo riguarda l’avvenire di tutti. Difendiamo gli interessi italiani e europei certo promuovendo sicurezza economica, ma senza tradire i fondamenti di un’economia aperta come la nostra. Si tratta di scelte concrete, come per esempio la conclusione dell’accordo Mercosur. L’Italia e l’Europa non possono permettersi di chiudersi al mondo.





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