Il suolo si inaridisce, interi laghi spariscono e una buona fetta della popolazione isolana, specie nelle aree interne, si ritrova a boccheggiare. La cronica mancanza d’acqua in Sicilia sembra aver preso una piega irrisolvibile. Ma mentre si cercano alternative fantasiose o costose, potremmo già essere letteralmente seduti sopra quella vincente: i pozzi sotterranei di costruzione musulmana a Palermo e Messina, capaci, a differenza degli acquedotti romani, di impedire all’acqua di evaporare
Mandorli, aranceti e pistacchi. Nell’immaginario collettivo la Sicilia è terra di colture ma, in questi ultimi anni, la siccità ha reso l’isola priva di acqua, sterilizzando le coltivazioni. Lo stress idrico sta invalidando l’economia locale: dalla crisi del mercato delle arance che sta avvilendo i venditori, al lancio del bonus lavastoviglie per razionalizzare l’acqua. I laghi, da quello di Pergusa in provincia di Enna, al lago Fanaco nell’area palermitana, sono scomparsi, lasciando solo zolle crepate in superficie, come se tutto si fosse fossilizzato evocando un mondo antico. Ma non c’è fascino in questo: l’animo degli abitanti dei centri che si affacciavano sul lago sono rassegnati. «O non piove per mesi o arrivano temporali così violenti da distruggere tutto – mi dice la signora Annamaria – Non sappiamo più che fare. Diamo colpe: ai politici, al global warming, al sole, ma credo che si debba parlare di meno e agire di più per trovare una soluzione».
DIVERSE LATITUDINI, STESSO PROBLEMA. Passeggiando sulle rive di quello che, fino a poco tempo fa era il Lago Ogliastro, la mia immaginazione vola ad una scena che ho già vissuto quattro anni fa, a migliaia di chilometri di distanza: fra l’Iran e l’Afghanistan, infatti, la siccità ha prosciugato l’antico fiume Helmund, distruggendo ogni forma di vita lì attorno. Il colore bruno del greto, l’odore di sabbia e la stessa rassegnazione degli abitanti. C’erano – e ci sono ancora – le avvisaglie di una guerra in nome dell’acqua. Le battaglie di Alessandro Magno o le Crociate non c’entrano più nulla: è l’acqua il nuovo Santo Graal, il bene per cui si combatte. I ragazzi del posto sostenevano che l’acqua dei rubinetti fosse piena di sabbia e che, presto, sarebbero dovuti migrare in un’altra regione per non morire di sete. La preziosità dell’acqua è cosa nota in Medio Oriente: proprio per questo, da una decina d’anni, gruppi di ricercatori e professionisti si spingono in condizioni estreme per trovare soluzioni. Anche io sono stata coinvolta in una di queste ricerche: con gruppi di archeologi, giornalisti, ingegneri e speleologi, per trovare gli antichi canali scavati dagli Achemenidi e dai Sasanidi, che hanno reso la Persia uno degli Imperi più vincenti della storia. Ed è proprio dall’Iran che potrebbe arrivare una soluzione da sperimentare anche in Sicilia: da questa terra misteriosa e macchiata dai resti di una recente Rivoluzione, la ricerca dell’acqua ha portato ad utilizzare gli antichi sistemi idrici sotterranei, i kariz, conosciuti anche come qanat. La soluzione potrebbe essere proprio sotto il nostro naso.
UNA SOLUZIONE SOTTO I NOSTRI PIEDI. «I qanat – spiega Stefano Barontini, professore presso il DICATAM dell’Università di Brescia – sono il sistema che potrebbe risolvere i problemi di siccità in cui versano molti Paesi del mondo. Negli anni precedenti al Covid, infatti, abbiamo dato vita ad un progetto per la realizzazione di sistemi agricoli sostenibili che avevano come focus la riattivazione dei pozzi islamici, ricercando le falde acquifere al confine tra Iran e Afghanistan». Queste gallerie di drenaggio partivano da una falda freatica sulle montagne e consentivano all’acqua di scorrere a valle, fino a raggiungere la superficie del suolo in pianura. Un meccanismo inventato dai persiani 3500 anni fa e perfezionato dagli arabi nel Medioevo. «La loro efficacia – continua il professore – sta nel fatto che i pozzi consentono all’acqua di non evaporare e di ottenere una resa al 95% sulla sua raccolta». Il sistema si differenzia dagli acquedotti romani: non è più un ponte sospeso, come lo splendido esemplare conservato fra Catania e Paternò, ma diventa una vena sotterranea per dissetare le città e far fiorire splendidi giardini.
I QANAT IN SICILIA. Nonostante i qanat meglio conservati e ancora oggi attivi siano in Iran, nell’area del Khorasan-el Janubi, la Sicilia mantiene il legame con la Via della Seta e ci rende spettatori di questi incredibili sistemi ingegneristici. Palermo e Messina, infatti, sono le città in cui è possibile viaggiare nel tempo, fra le concrezioni calcariche e la mano degli arabi, che hanno vascolarizzato di acqua dolce le due città, creando oasi di bellezza e prosperità. Una possibile soluzione per la siccità, dunque, potrebbe trovarsi proprio sotto i nostri piedi. Così, per valutare il potenziale delle antiche vestigia arabe mi sono recata a Palermo. Sotto l’occhio vigile di Santa Rosalia, che domina la città dall’alto di Monte Pellegrino, mi sono diretta alla scoperta dei qanat, per comprendere come potrebbero essere impiegati per rifornire ancora d’acqua la città. Attraversando le trafficate vie cittadine, che parlano ancora oggi le lingue del suo passato grazie ai nomi scritti in arabo, ebraico e italiano, ho raggiunto Fondo Micciulla, per entrare attraverso il qanat Gesuitico Alto. Qui, accompagnati dal team ArcheOfficina e dalle guide speleologiche del gruppo CAI Sicilia, è possibile scoprire gli antichi canali idrici, che irrigavano le aree del Genoardo e della Conca d’Oro. La città dai 7 nomi, infatti, è sempre stata un Paradiso in terra, densamente abitata e con grandi giardini che necessitavano di essere mantenuti floridi. Con questo sistema di canali e vasi comunicanti, quindi, l’acqua scorreva fresca sottoterra ed era facilmente reperibile. Non a caso, le “qanate” si trovano in prossimità di Corso Calatafimi, che in passato era un vasto giardino reale, ricco di piante esotiche e fontane spettacolari. Vestita con torce, stivali e k-way, sono entrata nelle viscere della terra e a colpirmi sono stati da subito due elementi: la presenza di 50 cm di acqua e un freddo intenso. Dunque è qui che viene conservato questo bene così prezioso. Nell’odore di umidità, si procede percependo la grandezza del passato. I cunicoli nutrono il sottosuolo della città che, in superficie, continua la sua vita caotica, ignara del tesoro che si trova a qualche metro di profondità.
DA PALERMO A MESSINA. Ripenso alla mia vita in Iran, nelle regioni di nord-est. La desertificazione della Persia, rischia di essere l’anteprima di ciò che potrebbe accadere nell’antica Trinacria. Ma se in Iran, come mi spiega ancora il professore, «con i recenti subbugli geopolitici, la presa di potere talebano e i disordini, il progetto di riattivazione è sospeso», in Sicilia potrebbe essere davvero praticabile, e non solo a Palermo. Messina, l’antica Zancle, chiamata così per la sua forma a “falce” sul Mediterraneo, è stata protetta durante la dominazione araba dal sistema dei qanat di cui, per secoli, si era persa traccia. Lì ho avuto la percezione che il sistema sia ancora da analizzare in profondità, ma, grazie all’Associazione culturale M.A.P., il sistema acquedottifero ha iniziato ad essere apprezzato e visitato. La struttura che emerge oggi è completamente avvolta da concrezioni calcaree, segno di una costruzione attribuibile all’avvento arabo nel X secolo. Dalla vallata in cui nasce il torrente Trapani, l’acqua veniva incanalata all’interno dei qanat, cingendo la città per raggiungere Piazza San Vincenzo. In questo mondo sotterraneo la città conserva ancora il suo passato, distrutto, in superficie dai terremoti del 1783 e del 1908. Qui, il legame con la Siria, il Maghreb, la Persia e la Spagna, ci porta in una Sicilia cosmopolita, che si è resa all’avanguardia anche in un passato lontano per noi da riscoprire.
Come spesso capita, a volte le idee per il futuro risiedono nel passato. Sotto i nostri piedi si cela una soluzione vincente, ora, sta a noi riadattarla alla modernità.
(Foto in copertina di Samuele Schirò ed Erika Mattio)
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