Il generale in pensione David Agmon, 77 anni: è in sciopero della fame da settembre
«Non sto male. Gli esami del sangue vanno bene. Li facciamo ogni due settimane. Ho perso dieci chili, mi sento più leggero ». David Agmon, 77 anni, ha un aspetto curato. Capelli bianchi e corti, fazzoletto al collo, indossa una felpa sopra la maglietta nera con la scritta gialla: «In sciopero della fame per liberare gli ostaggi». Difficile credere che non ingerisca cibo da cento giorni esatti ad oggi. E da altrettanti viva sotto una tenda nella piazza del Parlamento a Gerusalemme. «Neglect square», si legge, in inglese ed ebraico, su un cartello giallo all’entrata dell’accampamento creato oltre tre mesi fa ai piedi della Knesset. Una decina di teli, sedie di plastica bianche, bandiere israeliane e foto dei rapiti. «Gli abbandonati. Loro e noi. Il governo di Benjamin Netanyahu ci ignora entrambi», sottolinea il generale in pensione che, all’alba del 7 ottobre 2023, ha impugnato la pistola, è uscito dalla sua casa di Rishon LeZion e si è precipitato nel sud di Israele per fermare i miliziani di Hamas. «Ho combattuto per quattro giorni, prima a Ofakim poi a Kfar Aza. In quel momento era la sola cosa che potevo fare per aiutare il mio Paese. Ora è questa» ribadisce, mentre indica il sit-in permanente. «Questa», cioè digiunare a oltranza per richiamare le autorità politiche di fronte alle proprie responsabilità. L’idea è venuta a Orna Shimoni, 83 anni, una delle fondatrici di “Four mothers anti-war”, movimento cruciale per la fine dell’occupazione del Libano. A settembre, l’anziana ha cominciato uno sciopero della fame pubblico.
«Qualche settimana prima c’era stata l’uccisione di sei sequestrati a Gaza da parte dei miliziani. Persone che sarebbero state liberate se ci fosse stato l’accordo. Tanti pensavamo di dovere fare qualcosa. Non potevo lasciare andare avanti Orna, non era nelle condizioni fisiche. Così mi sono offerto di prendere il suo posto. E intendo andare avanti fino a quando il governo non avrà riportato a casa i nostri cittadini. O fino a quando non si farà da parte e convocherà nuove elezioni. Il primo passo è un cessate il fuoco per mettere fine a una guerra senza alcuna ragione strategica se non la determinazione del premier di restare aggrappato al potere ed evitare i processi». Anche ieri in un’ennesima ondata di raid sulla Striscia ci sono state 63 vittime secondo il ministero della Salute, controllato da Hamas. Tra queste anche il capo della polizia e il suo vice. In un video su Telegram Abu Hamza, portavoce del braccio armato della Jihad islamica, le Brigate al-Quds, ha detto che uno degli ostaggi avrebbe cercato ieri di togliersi la vite per lo stato di prostrazione.
«L’accordo è più urgente che mai», sottolinea David Agmon, non proprio una colomba. «No, non lo sono», sorride mentre guarda la mano destra, fasciata da una benda nera. «Me l’hanno ferita in Libano nel 1971 e, ogni tanto, mi dà ancora problemi», minimizza l’ex militare dell’unità di élite Egoz. «La prima a entrare a Gaza anche questa volta», racconta con una punta di orgoglio. «Le dico di più. Se avessi trenta o quarant’anni probabilmente sarei anche io sotto le armi. Non chiederò mai ai riservisti di rifiutare la chiamata. Non posso farlo. È uno dei principi su cui si fonda il nostro Stato. E, poi, i soldati combattono per i propri compagni. Vanno avanti, anche quando lo scontro non ha più alcuna logica, per non abbandonare i commilitoni, perché questi ultimi farebbero lo stesso per loro. Ma spero che quando termino il servizio, vengano qui. Le azioni nonviolente richiedono tempo e pazienza. Ma funzionano. È già accaduto, anche in Israele».
Il riferimento è quello alla protesta analoga del capitano Moty Ashkenazi che portò alle dimissioni di Golda Meir nel 1974 grazie alla massiccia mobilitazione. Stavolta, all’ex generale si è aggiunta qualche decina di persone. «Di giorno qui siamo una cinquantina. E aumentiamo, piano piano. Una quarantina fa sciopero della fame in modo intermittente. Otto siamo fissi». Tra questi ultimi c’è anche Danny Elgarat, fratello di Itzhah, catturato il 7 ottobre e ancora prigioniero, senza cibo da 89 giorni. Azioni significative. Non c’è stato, però, ancora quello stop alla vita civile a cui David ha più volte chiamato. L’ex militare stesso ha chiuso la propria azienda per dedicarsi a tempo pieno alla protesta. «A tutti, di qualunque orientamento politico o religioso, chiedo di venire e di bloccare il Parlamento e il resto della città e del Paese. So che per tanti non è facile. I giovani sono al fronte. Le famiglie sono stanche e frustrate. Alcuni non si sono ancora ripresi dal trauma del massacro. Ma ho fiducia nel mio popolo anche se non so quanto tempo ci vorrà. Però non ho altra scelta. I miei nipoti devono sapere che ho fatto qualcosa per oppormi a un governo il quale ha prima rafforzato Hamas per boicottare gli accordi di Oslo e poi s’illude di risolvere tutto con la guerra. Israeliani e palestinesi abbiamo necessità di un orizzonte politico basato sui due Stati. Alla fine, che ci piacciamo o no, siamo costretti a imparare a vivere insieme».
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