Rosita Missoni, addio alla signora della maglieria made in Italy

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Con lei, scomparsa oggi all’età di 93 anni, se ne va un pezzetto di storia della moda italiana. Poiché parlare di Rosita Missoni significa compiere un viaggio a ritroso agli albori del made in Italy; sul doppio filo creativo e passionale di una stoffa dalla trama a zig zag. L’intuizione? Utilizzare le macchine Raschel delle tessiture lombarde fino ad allora votate alla lavorazione di scialli dai motivi arabescati, per creare un tessuto a maglia che brillasse di fantasia. Ne nacque, negli anni Sessanta, una tela saettata che pareva poter contenere tutti i colori dello spettro; il glicine e il pervinca, l’ocra e il tamarindo, in un pattern emblematico di quella sinergia tra estro e industria per cui il mondo avrebbe conosciuto il Belpaese. Un’estetica. Uno stile. Un manifesto. Squisitamente Missoni; nato da una sensibilità artistica senza freni inibitori, specchio riflesso della vivacità di colei cui era arrivato il guizzo di trattare la maglia alla stregua di una tela bianca pronta ad essere tinteggiata di creatività.

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WWD//Getty Images

Del resto Rosita Jelmini, nata nel 1931 in un paesino lungo le rive del Ticino, apprese i rudimenti di ago e filo (e imprenditoria) sin da bambina, grazie alla fabbrica dei nonni materni specializzata nella confezione di scialli e tessuti ricamati. Una giovinezza trascorsa tra gli scampoli di tessuto che tuttavia non le impedì di proseguire quegli studi in lingue che l’avrebbero portata a conoscere l’amore della sua vita. Fu nella Londra del 1948 che, in occasione di un viaggio per perfezionare l’inglese, conobbe una giovane promessa dell’atletica italiana. “Per me era come se fosse Matusalemme” ebbe a dire di quel bel ragazzo slanciato, Ottavio “Tai” Missoni che nonostante la differenza di età – nove anni più grande di Rosita, all’epoca non una quisquilia – sposò nel 1953. Il caso, come nelle più belle favole che si possano raccontare, volle che anche Ottavio avesse una piccola attività di maglieria impegnata nella confezione di tute per la squadra olimpica italiana. E va da sé che il sodalizio, da sentimentale, divenne anche professionale in una vicenda che, dal seminterrato dell’abitazione Missoni di Gallarate, conquisterà il mondo sempre poggiando su quelle solide fondamenta fatte di artigianato, innovazione e, soprattutto, famiglia. “A me affascina la casualità di questi fatti – raccontò una volta Ottavio –. Se penso di essere sposato da 57 anni con una donna che ho conosciuto sotto la statua di Cupido in Trafalgar Square, penso che il caso sia una cosa meravigliosa”.

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morta rosita missoni, signora della maglieria made in italypinterest

Mondadori Portfolio//Getty Images

Eppure non fu il fato a conquistare la mitologica Biki prima e la Rinascente poi, e al netto di non considerarsi affatto designer, “non siamo mai stati stilisti – raccontò la coppia –, ci hanno chiamato stilisti perché hanno riconosciuto uno stile nel nostro prodotto”, nel 1966 debuttarono in passerella a Milano con la loro prima collezione completa di maglieria realizzata in collaborazione con Emmanuelle Khanh. L’anno successivo, nel milieu di una Sala Bianca di Palazzo Pitti che, appunto, è roba da annali di storia della moda, fu proprio Rosita l’artefice di un involontario e pionieristico nude look, oggi alle volte dimenticato sotto alla viralità di nudità sdoganate dentro e fuor di pedana. La lingerie faceva capolino dalla debole maglieria dei Missoni, e a Rosita venne l’idea di far sfilare le mannequin senza niente sotto, inconsapevole che le luci di passerella avrebbero rivelato i corpi oltre la trama e l’ordito, facendo scandalo. Eppure, nonostante qualche aguzza penna dell’epoca, il fortuito coup de théâtre di Rosita donò popolarità alla griffe e Diana Vreeland, nel frattempo, spalancò loro anche le porte dei department store statunitensi.

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Rose Hartman//Getty Images

“Chi ha detto che esistono solo i colori? Ci sono anche i toni”, sentenziò entusiasta l’allora direttrice di Vogue alla vista della maglieria sgargiante dei Missoni. Fu proprio qui, in terra americana, che lo zig-zagging nato nel varesotto divenne il put-together; un poetico pasticcio di colori, punti e fantasie, un métissage sgargiante di righe, fiammati e ondulati, cesellati di cromie all’apparenza inconciliabili che fu e ancora è un simbolo del made in Italy. “La migliore maglieria del mondo”, la definì il New York Times. Un feticcio dal design grafico realizzato a quattro mani dall’headquarter della maison nel frattempo trasferitasi a Sumirago, che conquisterà anche il Neiman Marcus Award con la motivazione che “Marito e moglie, insieme, hanno osato nuove dimensioni e nuovi rapporti di colore nell’uso delle tradizionali macchine da maglieria, tanto da essere oggi la forza più potente nel campo della maglieria per uomo e per donna”.

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Penske Media//Getty Images

Una vita sul filo di lana che per Rosita, perno della famiglia, continuò anche dopo la morte di Ottavio e del primogenito Vittorio nel 2013, quando traslò il suo estro a colori nell’home design della griffe perché in fondo, come disse al New York Post: “La filosofia del nostro lavoro sta nel fatto che consideriamo un capo d’abbigliamento come un’opera d’arte. I nostri prodotti non devono essere comprati per un’occasione speciale, né perché sono di moda, ma soltanto perché uno li ama e sente che potrebbe indossarli sempre”. Eterni, proprio come parte di quel doppio spirito che li plasmò, scrivendo un pezzetto indimenticabile di storia del costume.



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