Nel mese di marzo di mezzo secolo fa, mentre in Cina un agricoltore ritrovava il celebre esercito in terracotta dell’imperatore Qin Chi Huang, nelle campagne di Cabras, vicino a Oristano, un altro contadino, o forse un medesimo dio dell’archeologia in vena di scherzi, urtava con l’aratro un busto di calcare. Ci sono voluti trent’anni per ricomporre le tessere misteriose di un mosaico archeologico ancora da decifrare ed è emerso un piccolo esercito di pietra nel cuore della Sardegna: 28 figure intere e a tutto tondo, esposte oggi nei Musei di Cagliari e di Cabras. I guerrieri di calcare hanno un’altezza che va dai due ai due metri e mezzo e rappresentano tre classi di combattenti: pugilatori, arcieri, dotati di arco decorato, e opliti, portatori di scudo rotondo e lancia, o pugnale. Nel frattempo, quei primi 28 avrebbero già superato la quarantina e il numero totale è ancora tutto da scoprire. Per gli studiosi si tratta del più grandioso complesso statuario dell’Occidente protostorico. Ma di quale contesto erano parte i giganti di pietra? Senza trentacinque anni in litigi tra università e soprintendenze sarde le ricerche ci direbbero certamente di più
◆ Il reportage di MAURIZIO MENICUCCI
► Il mistero, che era forse la parola più ricca di fascino del mondo, lo ha perso quasi del tutto. Causa usura, o, come dicono gli esperti, per svuotamento di significato, in parte perché anche le tabelline − secondo il Censis − sono diventate misteriose per la maggior parte degli italiani, in parte perché sempre più misteri ce li inventiamo di sana pianta, col retropensiero che i poteri forti non ci vogliono dire la vera verità. Ma se, nonostante tutto, qualcuno fosse ancora appassionato di misteri, quelli autentici, allora non avrebbe scelta. Dovrebbe darsi all’archeologia, che dell’inspiegabile, nonché dello spiegabile con molta fantasia, resta più che mai il paradiso. E nell’ambito dell’archeologia, dovrebbe concentrare la sua attenzione sulla Sardegna, dove la civiltà nuragica, capace di edificare migliaia, e forse decine di migliaia, di esemplari delle sue tipiche torri megalitiche, continua a sfidare la logica con l’assenza di una scrittura, che molti continuano a cercare, ma nessuno è riuscito a dimostrare. In attesa di comprendere questo mistero, a conferma dell’impenetrabilità della Protostoria sarda, un altro non meno profondo s’è aggiunto in questi anni e rischia persino di detronizzare quello sugli artefici dei nuraghe.
Tutto parte nel mese di marzo di mezzo secolo fa, quando, proprio mentre in Cina un agricoltore ritrovava il celebre esercito in terracotta dell’imperatore Qin Chi Huang, nelle campagne di Cabras, vicino a Oristano, un altro contadino, o forse un medesimo dio dell’archeologia in vena di scherzi, urtava con l’aratro un busto di calcare. Era la prima delle 5200 tessere di un vero puzzle archeologico, quello dei cosiddetti Giganti di Mont’e Prama, che avrebbe richiesto più di trent’anni per essere ricomposto. Formato da 28 figure intere e a tutto tondo, che sono esposte nei Musei di Cagliari e di Cabras, il piccolo esercito di pietra rappresenta tre classi di combattenti: pugilatori, arcieri, dotati di arco decorato, e opliti, portatori di scudo rotondo e lancia, o pugnale. Nel frattempo, quei primi 28 avrebbero superato la quarantina, senza considerare certi riassemblaggi un po’ forzati e alcune figure, o frammenti, che, rinvenuti in terreni privati, sarebbero stati subito riseppelliti per non pagare ai proprietari il premio, pari al 15 per cento del valore di un Gigante, che può arrivare al milione di euro.
Quale sia il loro numero, grazie a loro, il ‘Monte delle Palme’ fu subito considerato dai maggiori studiosi dell’epoca, guidati da Giovanni Lilliu, il più importante sito archeologico della Sardegna e il più grandioso complesso statuario dell’Occidente protostorico. Oggi, la quantità e l’importanza dei manufatti che le strumentazioni geofisiche stanno ancora individuando, in particolare nella vicina laguna di Cabras, rendono sempre più evidente questo primato. Ma se il puzzle materiale sembra risolto, dare un contesto e un significato ai reperti è un rompicapo molto più arduo. Prima di essere distrutti e ammucchiati in una sorta di discarica da qualcuno, forse Fenici, o Punici, o Romani, che s’illudeva di dannarne la memoria, i guerrieri erano allineati, forse supini, ai lati di un percorso monumentale. Si ritiene ‘illustrassero’ 120 sepolture individuali che via via sono emerse dal suolo lì intorno, ma che solo in parte sono state studiate. Alti dai due ai due metri e mezzo, più di qualsiasi statua trovata nel Mediterraneo occidentale, di gigantesco, in realtà, hanno soprattutto la mole di interrogativi che sollevano, a cominciare dall’età, attribuita dapprima al VII-VIII secolo, quindi al IX, infine al XIII.
Più verosimilmente, testimoniano un unico, lungo arco di tempo, che sconfina nel post-nuragico, come suggeriscono il Dna e altri esami sui resti inumati nelle tombe a pozzetto, quasi tutti di giovani maschi, tra loro parenti. Si tratterebbe, dunque, di un’élite di guerrieri caduti in battaglia e raccolti in un Heraion, un luogo consacrato agli eroi, che nel corso dei secoli avrebbe acquisito importanza tra le popolazioni dell’intera Sardegna; forse, un’embrionale ‘amfizionìa’ – come a Delo, a Olimpia e a Delfi – dove varie tribù convenivano per celebrare il culto degli antenati e rinnovare i patti di difesa reciproca, consolidando il sentimento di una comune identità. Una trentina di modellini di nuraghe ritrovati nell’area (lo stesso numero di quelli scoperti in tutta l’isola!), aggiungono suggestione al sito, spingendo qualcuno a immaginare l’esistenza di una vera e propria accademia di architettura, specializzata nel progettare e realizzare ‘chiavi in mano’ queste strutture.
Altri Paesi, meno ricchi di Storia del nostro, ma più intelligenti, avrebbero fatto di tutto per mantenere aperti gli scavi. Invece, alla fine degli anni 70, dopo tre campagne, esaurite le scarse risorse, ma non i litigi tra università e soprintendenze sarde, le ricerche s’interruppero. A riprenderle, 35 anni dopo, sono stati l’ingegnere dell’Università di Cagliari, Gaetano Ranieri, e l’archeologo dell’Università di Sassari, Raimondo Zucca. Ranieri è un pioniere delle tecnologie elettromagnetiche e acustiche, che oggi sono diventate indispensabili alla ricerca archeologica non invasiva, così come alla diagnostica medica. Dieci anni fa, li incontrammo a Mont’e Prama, dove lavoravano con altri colleghi e con un gruppo di detenuti che, in cambio di 24 ore d’aria buona, avevano accettato di aiutarli. Ranieri si dava da fare con un georadar e poi tracciava perimetri di sassolini bianchi. Zucca faceva la telecronaca delle operazioni in rima baciata, come dicono gli accada quando si emoziona davanti a un nuovo reperto. Da allora, hanno continuato ad allargare il raggio delle loro indagini, tra ostacoli burocratici e inspiegabili distrazioni da parte dei responsabili della tutela archeologica. Tra queste, memorabile, l’impianto di una vigna industriale proprio sul confine dei vecchi cantieri, in un fondo valutato, allora, 40 mila euro, che la Soprintendenza aveva sollecitato invano il Comune di Cabras ad acquisire. Ora, per poter proseguire gli scavi, lo si dovrà pagare a prezzo di mercato, più del triplo, o espropriare, ma con notevoli costi legali. Ma la Scienza guarda più lontano di queste beghe, anzi, più sotto. Lo vedremo meglio domani dalla testimonianza diretta di un protagonista tenace. E senza peli sulla lingua. — (1. Continua domani)
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