Alla fine del 2024 – anno internazionale che l’Onu ha dedicato ai camelidi: una famiglia di mammiferi inevitabilmente associata a deserti e aree aride o semi-aride – la sedicesima Conferenza della Convenzione Onu contro la desertificazione (Unccd) riunita in Arabia saudita ha deciso di rimandare impegni globali vincolanti alla conferenza successiva, la Cop 17, che si terrà nel 2026 – anno Onu dei pascoli: l’uso dei suoli dominante nelle terre aride del mondo – in Mongolia, altro paese molto arido nel quale la desertificazione (perdita di produttività biologica e agricola dei suoli) colpisce ormai i tre quarti del territorio. E proprio in Mongolia, il presidente Ukhnaa Khurelsukh ha lanciato ufficialmente due anni fa la campagna One Billion Trees: piantare un miliardo di alberi entro il 2030 per bloccare l’avanzata del deserto del Gobi. Rinverdisce anche l’Arabia saudita, con la Saudi Green Initiative e la Saudi Vision 2030 (centrata sull’acqua), ma grazie a tanto denaro nient’affatto virtuoso: quello dei combustibili fossili, causa di emissioni climalteranti, fra i fattori della desertificazione. Pecunia olet.
A LIVELLO GLOBALE, ASPETTANDO LA COP17, cosa si farà per affrontare desertificazione, degrado dei suoli e siccità? Intanto, è arido il 40% delle terre (escludendo l’Antartide) e oltre i tre quarti delle terre del pianeta hanno sperimentato condizioni di maggiore aridità negli ultimi tre decenni e secondo l’Spi (Science Policy Interface, organismo tecnico dell’Unccd). Nel 2100 ben 5 miliardi di persone potrebbero vivere in aree aride. Secondo i recenti rapporti dell’Unccd, World Drought Atlas ed Economic of Drought Resilience, la siccità già colpisce 1,8 miliardi di persone e provoca danni stimati in 300 miliardi di dollari l’anno. Diffusa è ormai la consapevolezza che proteggere e recuperare il suolo sia fondamentale anche per mitigare i cambiamenti climatici, proteggere la biodiversità, costruire resilienza nelle comunità vulnerabili. Eppure, alla Cop16 di Riad – Conferenza considerata molto inclusiva per via dei 20.000 partecipanti, con oltre 600 eventi – non si è raggiunto un accordo globale per obblighi vincolanti, in termini di politiche e risorse economiche. Lo volevano i paesi africani; quelli occidentali chiedevano invece un quadro meno stringente. Eppure, le aree particolarmente colpite dalla tendenza all’inaridimento comprendono la stessa Europa. E l’Italia, dove a contribuire al degrado c’è il consumo di suolo – 2,3 metri quadrati al secondo.
MOLTO INFERIORI ALLE NECESSITÀ, poi, gli impegni economici presi alla Cop16, con il Partenariato globale di Riad per la resilienza alla siccità: 12,5 miliardi di dollari – fondi pubblici e privati – come cifra iniziale contro desertificazione, degrado del suolo e siccità. Per un confronto: almeno 2.600 miliardi di dollari, 1 miliardo al giorno fra il 2025 e il 2030 era la somma che l’Unccd nel suo paper Investing in Land’s Future: Financial needs assessment for Unccd, indicava come necessaria, da qui al 2030, per ripristinare oltre un miliardo di ettari degradati, arginare la desertificazione e costruire strategie di resilienza alla siccità.
LE AZIONI POSSIBILI DA SUBITO E A TUTTI I LIVELLI sono comunque numerose, benché sotto-finanziate. Fra gli accordi raggiunti a Riad c’è stata la creazione di spazi dedicati alla valorizzazione del ruolo di chi vive l’emergenza in prima linea. Sono nati così il Caucus per le popolazioni indigene (insieme alla dichiarazione Sacred lands) e il Caucus per le comunità locali. Previsti anche una strategia e un piano d’azione volti a garantire sostegni tecnici e finanziari a iniziative promosse dai giovani. Non potevano mancare anche le promesse a favore delle donne e delle bambine, «contro ogni forma di discriminazione».
CAUTELE RICHIEDERÀ LA MOBILITAZIONE del settore privato (400 i delegati del settore presenti a Riad), per esempio nell’ambito dell’iniziativa Business4Land per la gestione sostenibile del suolo e dell’acqua. Se il settore del business ha avuto finora avuto il braccino corto, contribuendo al ripristino dei suoli e alla resilienza alla siccità con un risicato 6% dei finanziamenti totali, c’è il rischio che le dichiarate ambizioni delle imprese non vadano d’accordo con l’equità. Ismahane Elouafi del Cgiar (Gruppo consultivo per la ricerca agricola internazionale) ha fatto notare che escludere i piccoli agricoltori perpetua l’iniquità. Anche il Fondo per contribuire alla Land Degradation Neutrality (obiettivo coniato alla Cop16, a somiglianza della carbon neutrality climatica), potrebbe tradursi solo in meccanismi come i mercati volontari del carbonio, certo in grado di finanziare progetti che assicurino alcuni benefici alle comunità più vulnerabili, anche attraverso l’agricoltura rigenerativa, ma finalizzati a compensare pratiche nocive per il clima, con quel che ne deriva per l’inaridimento delle terre.
«RIO TRIO INITIATIVE»: CON QUESTO TITOLO SUGGESTIVO è stato avviato, finalmente, il collegamento fra gli obiettivi chiave delle tre Convenzioni internazionali nate al Summit della Terra svoltosi a Rio de Janeiro nel 1992: Unfccc (clima), Cbd (biodiversità), Unccd (desertificazione). Idro è invece l’Osservatorio internazionale sulla resilienza alla siccità: annunciato dai sauditi, sarà la prima piattaforma globale basata sull’intelligenza artificiale per valutare e migliorare la capacità dei paesi in questa sfida. Opera nel quadro della International Drought Resilience Alliance (Idra). Chissà.
LA «VISIONE PER SUOLI E COLTURE ADATTE» (Vacs è l’acronimo inglese) ha rimediato a Riad investimenti totali pari a 70 milioni di dollari. La campagna promuove, tramite partenariati, la scelta di colture più nutrienti e al tempo stesso climaticamente resilienti oltre che in grado di contribuire al ripristino della salute delle terre degradate. Esempio: in Malawi, dove l’imporsi del mais come monocoltura – idrovora– è andato di pari passo con il peggioramento della denutrizione infantile, offre alternative capaci di futuro la promozione di colture come sorgo, miglio, arachidi; tanto più che nel paese le precipitazioni sono previste in diminuzione e le temperature in aumento. Come le bocche da nutrire. Ma il fatto che il progetto goda del sostegno universale (G7, Usa) dà da pensare.
PER LA GRANDE MURAGLIA VERDE IN AFRICA (Great Green Wall Initiative, Grande Muraille Verte) alla Cop 16 hanno annunciato fondi – risicati però – l’Austria e l’Italia. In questo quadro, Roma promette 11 milioni di euro per il ripristino dei suoli degradati nel Sahel. Un’azione di questo tipo è di importanza critica, secondo il rapporto The Economics of Land Degradation (Unccd, Iucn, Unep, Cgiar e vari governi), ma richiederebbe per tutta l’Africa l’investimento di almeno 2.000 miliardi di dollari. Progetto epico, complesso, la Grande muraglia verde è vitale per la stabilità stessa di una macro-regione che si trova ad affrontare tante minacce. Guidato dall’Unione africana, il progetto è nato nel 2007 con l’obiettivo di ridare fertilità entro il 2030 a ben 100 milioni di ettari di terre degradate, costruendo una barriera contro l’avanzata del deserto, sequestrando 250 milioni di tonnellate di carbonio e creando milioni di posti di lavoro. Un possibile antidoto alle migrazioni, ai conflitti e di fatto perfino al reclutamento di giovani da parte del terrorismo. Interessati ben 22 paesi africani, dal Senegal a Gibuti.
Tante le difficoltà: occorrerebbero 33 miliardi di dollari nei prossimi anni, afferma la stessa Unccd, ma malgrado le promesse sono stati sborsati meno di 3 miliardi.
Finora il progetto ha coperto meno del 10% dell’obiettivo, secondo la divisione foreste della Fao. Oggetto di critiche (a volte interessate) la stessa pertinenza delle azioni: per anni limitate a piantagioni generiche di alberi senza studiare bene gli ecosistemi. Da qualche tempo, in un approccio rigenerativo, si mira a ripristinare anche savane, aree umide, piante erbacee e arbusti, coinvolgendo migliaia di villaggi, introducendo la meccanizzazione (come un particolare aratro italiano) e costruendo micro-dighe.
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