Giulio Deangeli, 29 anni e 5 lauree: «Chi rifiuta l’Intelligenza artificiale perderà il lavoro. Così mi aiuta contro l’emergenza del futuro»

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Maria Paola Scaramuzza

Padovano, studia i batteri che resistono agli antibiotici: le sue ricerche sono altamente innovative ed è entrato tra gli under 30 più influenti d’America

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Neuroscienziato, 29 anni, è il primo italiano a vincere la borsa di studio Harvard Hip. Se dall’alto delle sue cinque lauree conseguite in sei anni ci avrà visto giusto, ci aiuterà a contrastare l’antibiotico-resistenza e diagnosticare le malattie respiratorie con un «click» grazie all’intelligenza artificiale. Giulio Deangeli ha sempre pensato in grande. Oggi, con la sua start up a Boston e il lavoro di ricerca a Cambridge, è parte attiva di un mondo in cambiamento. E guai, dice, a chi non vuol partecipare.

Forbes l’ha inserita tra i trenta «Under 30» più influenti d’America e attori di cambiamento. Deangeli, come cambierà il nostro mondo nei prossimi 10 anni?
«Una categoria di persone che perderà di sicuro il lavoro esiste, e sono quelle che si rifiutano di usare l’intelligenza artificiale. La rivoluzione industriale nell’Ottocento ci mise un secolo, qui sta accadendo tutto in pochissimi anni. A volte c’è chi giudica se l’AI ci piaccia o meno, ma è un falso problema. Cambierà comunque le nostre vite».




















































Come dovremmo affrontare questa rivoluzione, allora?
«La priorità è applicarla alle mansioni un po’ noiose dove vige l’automatismo, per consentire alle persone di occuparsi di cose più interessanti. Non siamo vicini alla sostituzione tra macchina e umano, il decisore per ora rimane assolutamente l’umano».

Ha detto «per ora».
«Parlo del futuro prevedibile. Lei metterebbe la sua carta di credito in mano a Chat Gpt?»

Nella medicina che funzione avrà l’AI?
«La letteratura medica ha dimensioni sconfinate, raddoppia ogni otto mesi, è difficile creare qualcosa di completamente innovativo attraverso una macchina. In medicina è più utile usare l’AI con il principio del “machine learning”: prendere grandi masse di dati e farli elaborare. Certo il primo caso di paziente che telefona e trova una macchina a rispondere è già accaduto nel 2017, a Londra, con pazienti veri, però è stato un caso eccezionale».

Lei sta utilizzando l’AI per razionalizzare l’uso degli antibiotici.
«Qui a Boston insieme ad un altro italiano formidabile, Cristiano Peron di Vicenza, abbiamo sviluppato una tecnologia che senza bisogno del laboratorio è in grado di identificare diversi tipi di microorganismi con un test. Pensiamo alla medicina del territorio: oggi un terzo delle chiamate riguarda malattie respiratorie e tutti se ne vanno a casa con l’antibiotico generalista non per errore, ma per protocollo. Eppure in questi casi non si sa mai quale sia di preciso l’agente patogeno, e questo crea due grandi problemi. Il primo è che tra il 50 e il 70 per cento le malattie respiratorie sono virali, quindi si manda a casa molta gente con acqua fresca. E sopra i 65 anni un caso su due finisce per essere da ospedalizzare. L’altro punto è la vera emergenza dei prossimi decenni».

L’antibiotico-resistenza?
«Attualmente la prima causa di morte, per 10 milioni di persone, è il cancro (a seconda che si consideri o meno la causa cardiovascolare, cioè l’infarto e l’ictus, come unitaria), mentre le resistenze antibiotiche uccidono un milione di persone. Il punto è che la cura al cancro è in netta salita, mentre il Primo Ministro britannico già nel 2014 diceva che nel 2050 i batteri resistenti agli antibiotici saranno la prima causa di morte al mondo. Noi abbiamo una terapia per tutto, ma non sappiamo a chi darla. Questa grave crisi è di portata globale, la nostra tecnologia è assolutamente nuova, ci auguriamo che possa davvero contribuire».

Questo progetto è nato grazie ad una start up, la Oxbridge Clinical. La ricerca si fa anche fuori dall’Università?
«Oggi si può fare ricerca pura anche con lo strumento della start up. Io faccio ricerca anche a Cambridge, nei laboratori di Pietro Liò e Maria Grazia Spillantini».

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Da ragazzino, a Este, come passava il tempo?
«Giocavo coi Lego e a dieci anni adoravo programmare. Ho frequentato il liceo Ferrari di Este. E poi sono uno dei pochi “panda” che si è iscritto a medicina con l’idea di non fare il medico ma la ricerca».

Per questo anziché una laurea ne ha prese cinque?
«Il mio tutor mi diceva che per fare ricerca uno non può rimanere nel proprio orticello, ma deve parlare tante lingue, in particolare quella quantitativa. Dopo i primi due anni a Medicina (alla Normale di Pisa, ndr) ho iniziato a dare esami di matematica a Ingegneria, mi divertiva moltissimo. Mi son detto: che faccio, mi fermo? Poi ho iniziato a dare esami di Biotecnologie e anche lì mi son divertito, alla fine mi son trovato a concludere Medicina, Ingegneria, Biotecnologia, la Magistrale in Biotecnologie molecolari e il Sant’Anna che è un percorso a parte».

Seguire i propri interessi e mai darsi dei limiti. È questo che consiglia agli studenti?
«Assolutamente. E la laurea è solo uno dei modi, non l’unico. Io ho cercato di lavorare sulle cose in cui ero più debole. Mi mancava la matematica».

Lei studia le neuroscienze, ha inventato anche un metodo di studio.
«Per spiegarlo mi ci vorrebbe lo spazio di un libro! Ahimé però dobbiamo sapere che le informazioni nel nostro cervello non durano, quello che rimane è il “mindset”, perciò non è l’esamino che aggiungiamo al nostro percorso che cambia le cose. Le vere contaminazioni avvengono altrove, tra persone che pensano in un modo completamente diverso dal tuo».

È vero che tutto questo è andato a raccontarlo anche in Parlamento?
«Sì, tre volte. L’università italiana fino a pochi anni fa ostacolava questi percorsi paralleli. Carlo Maria Rosati, a Pisa, fece medicina e ingegneria, è stato un apripista. Con l’aggiornamento approvato all’unanimità adesso non solo vieni incoraggiato a fare percorsi multipli, ma non paghi nemmeno tasse in più».

Che ci fa nel Comitato Scientifico della Regione Toscana?
«Mi ha chiamato il Presidente del Consiglio regionale Antonio Mazzeo, il tavolo è composto per lo più da professori universitari più esperti di me, io sono il più giovane. L’idea è immaginare la Toscana del 2050».

Lei cosa immagina?
«Penso alla ricerca. Nell’università europea le risorse sono distribuite in maniera abbastanza omogenea, diversamente dal sistema americano, più verticistico, dove c’è una componente imprenditoriale. Lì ci sono poche università nettamente superiori alla media, in Italia invece sono tutte mediamente buone. Non è un giudizio, è una constatazione».

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Questo cosa comporta?
«Dal punto di vista sociale è meglio il sistema europeo perché a un’ora di macchina si può trovare un’università buona, ma dal punto di vista della ricerca è un problema. In certi posti due più due non fa quattro. Fa dieci. Secondo voi nella “top 30” del ranking mondiale quante europee compaiono? Zero. Quando c’è da risolvere un problema concreto, come il Covid per esempio, allora serve l’America. La decisione comunque spetta al popolo: che tipo di università vuole l’Italia?»

Intanto lei, cervello premiato negli Usa, l’Italia la frequenta ancora…
«In Italia ho una Fondazione che eredita il percorso di “A choice for life”, nata proprio ad Este. Quest’anno siamo diventati una Fondazione, completamente non profit e fatta da volontari. Proponiamo l’Escape room, mandiamo i nostri volontari a somministrare dei giochi che simulano tra i ragazzi le esperienze delle varie professioni. Il secondo progetto è la Mentorship, selezioneremo tramite bando dei ragazzi che hanno un sogno per accompagnarli a realizzarlo, aiutandoli a impostare il proprio percorso».

Avrebbe potuto occuparsi di AI su Marte, invece ha scelto il tema dell’orientamento a scuola. Perché?
«Ho avuto tanti mentori formidabili soprattutto all’università che mi hanno dato i consigli giusti, la mia prof Spillantini e Pietro Liò. Un “give back” è fondamentale. E poi l’Italia ha delle opportunità stupende ignote al grande pubblico, per esempio le scuole superiori universitarie, come Sant’Anna a Pisa o la Galileiana a Padova».

Lascerà mai l’Italia?
«Ma no! Non vi libererete mai di me».


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