In questi primi giorni del 2025, pubblichiamo alcune delle interviste più significative dello scorso anno. Partiamo dall’ultima del 2024, quella a Cesare Prandelli.
L’intervista a trecentosessanta gradi con Cesare Prandelli, già commissario tecnico della nostra Nazionale. Si parla di giovani, di formazione, di idee per cambiare e per rendere più bello il gioco che tanto amiamo.
Cesare Prandelli non ha certo bisogno di presentazioni. Giocatore della mitica Juventus di Michel Platini, poi allenatore di diversi club della massima serie e all’estero, oltre che della nostra Nazionale, con un trionfo all’Europeo del 2012 sfuggito nella finale con la Spagna. Tra l’altro ha esperienze da formatore di giovani nel vivaio dell’Atalanta di Mino Favini per diverse stagioni. Una carriera di primo livello, il calcio ora lo vede da più lontano, lo segue, lo ama come prima… però la panchina che sogna, come ha dichiarato nel momento in cui ha deciso di smettere, è quella al parco coi suoi nipoti.
Le sue competenze e le sue esperienze, oltre alla signorilità – sì, quella manca molto oggi – ne fanno il giusto interlocutore per parlare delle tendenze calcistiche del momento, con una particolare attenzione ai giovani. Perché basta fermarsi un attimo a pensare all’ultimo grandissimo calciatore italiano, da primi cinque delPallone d’Oroper intenderci, che ci troviamo spiazzati. Dobbiamo andare molto indietro nel tempo (non considerando il quarto posto di Gigi Buffon quasi al termine della sua carriera), questo deve farci pensare. Molto. Perché non è possibile che in Italia non nascano talenti top level. Da qualche parte si deve nascondere un problema.
Mister, partiamo dal fatto che abbiamo un movimento importante, ma ci mancano giocatori di spicco, elementi offensivi e non solo, di grandissimo valore. Se le chiedo qual è l’ultimo grande giocatore che il calcio italiano ha prodotto, cosa mi risponde?
«Che ho bisogno di un po’ di tempo per pensarci. E questo significa che, almeno negli ultimi 15 anni, non c’è. Questo calcio globale, questa ricerca spasmodica di numeri, di sistemi di gioco, di ripartenze dal basso e di costruzioni… ha fatto sì che il collettivo, la tattica d’assieme ha schiacciato l’individualità. Se nel settore giovanile ci sono dei ragazzini che hanno delle doti, che possono essere l’imprevedibilità, la tecnica, la fantasia, la giocata non scontata, non sempre vengono accettati. Perché? Perché mettono in difficoltà gli allenatori. Questa è la verità. Non dobbiamo analizzare la nostra Serie A, quello è l’apice, dobbiamo capire cosa succede prima. Abbiamo prodotto negli ultimi anni buoni centrocampisti, senza grandi fantasie magari, discreti difensori, che hanno però qualche limite nell’uno contro uno, ma di attaccanti e fantasisti non se ne parla. Nessuno.»
Perché è successo questo?
«Guarda, mi capita di andare a vedere partite sui campetti di provincia – ho i miei nipotini che giocano – osservo cosa succede, cosa si chiede alle punte, sempre di venire incontro, di fare muro, sponda… E questo vale anche a livelli più alti. Non può essere così, la punta nasce in area di rigore, la punta è quel giocatore che è freddo negli ultimi sedici metri, che sa dove è la porta, che chiude le azioni, non un calciatore solo di raccordo del gioco. In questo momento l’attaccante che va per la maggiore in Italia è Retegui, è nato in Argentina, e fortunatamente non ha perso le caratteristiche che ha avuto da giovanissimo.»
«Pensa ai fantasisti, ormai è un gioco tutto prestabilito, l’esterno che taglia, fa il triangolo… va bene, ci deve essere dell’organizzazione, ci mancherebbe, ma poi devi mantenere sempre e comunque una certa imprevedibilità. Devi avere uno-due giocatori che, con un controllo, con una finta, trovano la possibilità di cambiare questo sviluppo prestabilito. Con il pressing insistito in tutte le zone, con le coppie di giocatori che si formano, devi schierare più calciatori bravi, capaci dribblare, di superare l’avversario diretto. Fanno la differenza.»
Mi viene un esempio, mister: in Inter – Juventus (giocata pochi giorni prima dell’intervista, ndr), c’era un giocatore di questo genere, Francisco Conceição, che in Italia non abbiamo proprio, o magari c’è nascosto da qualche parte ma…
«No, no, non abbiamo un giocatore così, non lo faremmo crescere. Perché è piccolo. Una volta si sceglievano i giocatori non in base al peso, ma in base alle qualità tecniche. Abbiamo sempre detto che il calcio era una disciplina democratica. Ognuno aveva le proprie caratteristiche e le sfruttava. Conceição è un prototipo che non arriva dai nostri settori giovanili, ha una grande rapidità, tecnica, personalità, coraggio… Ha avuto la fortuna di nascere in Portogallo, noi probabilmente non gli avremmo permesso di dribblare troppo.»
Cosa si può fare? In Francia, anni fa, molti anni fa, hanno fatto i centri di formazione; in Inghilterra faticavano a costruire giocatori, ma ora ne hanno di prospetti interessanti; in Germania dopo il 2006 sono ripartiti, direi bene…
«È un discorso articolato, credo che un passaggio fondamentale sia stato il coinvolgimento delle istituzioni. Noi abbiamo la Federazione e la Lega, dico sempre che sono il papà e la mamma del calcio, devono andare d’accordo per far crescere… i figli. Il calcio è di tutti, non solo di una parte. La crescita dei nostri giocatori dipende parecchio dal loro modo di sviluppare progetti e idee. Perché in Germania, quando c’è stata una grande crisi di risultati, il presidente federale ha fatto una riunione, ha chiamato tutti i presidenti delle squadre e ha spiegato che la squadra più importante del Paese era la nazionale. E che i tecnici dei club dovevano collaborare con quelli della Nazionale, quelli dei settori giovanili compresi, che ci voleva grande sintonia. Solo così cresce il momento, dal confronto, dall’analisi, dal lavoro comune. Bisogna studiare un calcio a misura di bambino, un calcio che a 10 anni non può essere tutto programmato. Così non si va avanti. Se poi vogliamo entrare nei dettagli…»
Certo, mister.
«Per fare un esempio, un po’ estremo, si potrebbero abolire tutti i sistemi di gioco fino ai 15 anni, si gioca liberi e fine. Ormai il calcio ad altissimo livello è fatto di uno contro uno, ci sono tanti duelli, e dobbiamo prepararli fin da subito. Poi manca la libertà. I nostri ragazzi li ingabbiamo, i nostri ragazzi restano specializzati in piccole zone di campo, ma lasciamoli liberi di esprimersi: un attaccante può arretrare e diventare un grande centrocampista, un terzino lavorare in mezzo al campo. I giovani giocatori non sono dei robot, i bambini hanno già la loro idea, usano la loro testa. Non possiamo fare noi per loro.»
«Per farti un esempio, all’Atalanta, quando lavoravo coi ragazzi, si studiava calcio e analizzavamo quello che avveniva all’estero. In Spagna, che hanno una visione comune che aiuta tutti, un 2>1 era gestito in modo differente. I nostri ragazzi si passano la palla, i loro avanzano, puntano e poi battono l’avversario scegliendo cosa fare. Scegliendo da soli. Avanzano con energia, senza vincoli, senza troppi suggerimenti, con coraggio.»
Un coraggio che forse manca un po’ al nostro calcio, forse non ai nostri giocatori, ma a chi li guida.
«I bambini hanno coraggio, gli allenatori non devono frenarlo! Al massimo possono far capire se ci sono zone più pericolose di altre, ma devono stimolare la voglia di rischiare.»
Anni fa il gioco di strada aiutava questo coraggio, questa indipendenza. Gioco di strada che non c’è più e… non si può tornare indietro.
«No, non si può. Se fosse per me riaprirei gli oratori, che ora sono vuoti. Adesso ci sono le scuole calcio, ma l’oretta al campo non ti fa certo diventare giocatore. Non funziona così. E torno alle istituzioni: non ci sono gli oratori? Apriamo i centri federali sempre, tutti i giorni, possono prendere il posto degli oratori, degli spazi che non ci sono più. Così si garantiscono ore, giorni, mesi, anni di calcio. Con tecnici capaci di far crescere i ragazzi. Che non li inibiscono. Poi c’è la passione, ad esempio, il giocare da soli: immagini di essere sul campo, inventi la giocata, il tiro, il dribbling… la passione muove tantissimo e ti fa trasformare un calzino in un pallone. Per divertirti col calcio»
Se dobbiamo pensare al giocatore di oggi, qual è la caratteristica fondamentale che bisogna avere? E quella del futuro?
«Saper ragionare, interpretare a proprio modo il gioco, con qualità tecnica, visione… intelligenza. Servono calciatori che pensano in brevissimo tempo, soprattutto cose non banali. Mi piace quando ti aspetti una giocata da un ragazzo e questo ti sorprende con un’altra soluzione. Ecco questo dovrebbe essere il calciatore di oggi. Perché vogliamo tutti uscire dallo stadio come una volta, ricordandoci un gesto tecnico, un tiro al volo, un dribbling che ti ha lasciato a bocca aperta, un colpo di testa. Pensa, non abbiamo più attaccanti che sanno saltare di testa. E i cross li abbiamo aboliti, dobbiamo segnare solo palla a terra! Insomma, i giocatori di oggi e del futuro devono conoscere sì i sistemi di gioco, ma poi li devono interpretare individualmente e così facendo migliorano il collettivo, cambiano lo sviluppo della squadra.»
E l’allenatore?
«Mi piace quello che non è rigido, che dà tante conoscenze ai suoi uomini, ma che studia un’organizzazione sui calciatori che ha a disposizione. Che si adatta seguendo una linea. Che ha capito, e finalmente sta succedendo, che alla fine della partita non prendi punti con il possesso palla. Il possesso deve essere finalizzato. Lo facevamo anche noi all’Atalanta negli anni Novanta coi ragazzi, ma l’obiettivo era andare a fare gol. Il possesso ti permette di crescere tecnicamente, di avere anche coraggio, ma poi il fine è andare in area di rigore e segnare.»
«Le ripartenze veloci vanno riprese. Non facciamoci ingannare da quello che si dice di Guardiola, lui vuole un gioco verticale, fa possesso quando è vicino all’area avversaria se gli oppositori si chiudono negli ultimi trenta metri e non c’è spazio. Ma se c’è spazio riparte a mille all’ora. Il calcio è questo, devi sorprendere gli avversari. E li puoi sorprendere soprattutto se verticalizzi.»
Ci siamo un po’ dimenticati che alla fine il calcio emozione?
«Sì, forse a causa della schematicità, ma alla fine il calcio ti sorprende sempre, perché chi lo ama veramente si emoziona per una giocata, ne basta una, una che ti sbalordisce. Purtroppo, anche le analisi che si fanno non sono più emozionali, sono troppo tecniche o tattiche e diventa complicato. Non possiamo guardare solo l’errore che regala un gol, dobbiamo apprezzare soprattutto ciò che potrebbe averlo causato. L’emozione del calcio, per me, è data da cose che sono irripetibili sul campo, da un uno-due che non si chiude perché chi riceve inventa qualcosa.»
Formazione di giocatori o ricerca di risultati a tutti i costi: spesso nel settore giovanile c’è un po’ di confusione.
«So di cosa parli, ho fatto calcio giovanile per tanto tempo e anche noi all’Atalanta abbiamo fatto questi ragionamenti. La realtà è che devi arrivare al risultato, alla vittoria, attraverso il gioco e le conoscenze calcistiche, che permettono, aiutano la formazione. Perché alla fine conta quanti giocatori porti in prima squadra. Ricordo ancora di una finale persa a un torneo prestigioso, dopo qualche anno abbiamo guardato dove erano finiti i giocatori di quell’incontro. I nostri quasi tutti in Serie A. Anche perché bisogna avere pazienza, la fretta è cattiva consigliera. Sai quanti calciatori che negli Allievi giocavano poco poi sono esplosi in Primavera? Questo è possibile solo se hai pazienza e non metti troppe pressioni. Che stanno diventando fortissime.»
Il salto nei “grandi” è ancora molto complicato?
«Sì, perché esordire in Serie A è una cosa seria. Una volta lo facevi quando eri pronto per rimanerci. Adesso se lo fai a 18 anni diventi un personaggio, sembra tutto fatto. Ma non sei preparato. Non può essere un premio l’esordio, deve essere un punto d’arrivo di un percorso. Un percorso che prevede anche di saper controllare certe pressioni.»
Qualcuno ha scelto la strada delle seconde squadre, forse pochi club però.
«L’ha fatto per prima la Juventus, poi l’Atalanta e ora il Milan. La Juve ha avuto la forza di essere la prima e ha preso e gestito i migliori talenti, molti sono usciti adesso con grande qualità. Hanno visto bene, ma servono anche potenzialità economiche non indifferenti. E se i club non le hanno e non seguono questo percorso virtuoso, perché non può farlo la Federazione? Perché non può formare una sua squadra? È un discorso complesso, ma è un’idea, qualcosa su cui si può discutere. E da un’idea ne possono nascere altre e tutto evolvere.»
Concludiamo con un messaggio per tutti coloro che lavorano coi giovani, specialmente nei dilettanti. Cosa vuole dire loro?
«Di vivere tutto con grande gioia, di trasmettere entusiasmo e passione. Quello che fanno, specialmente a livello dilettantistico, è una missione. Non devono fare le cose per sé ma per gli altri. Se vogliono fare gli allenatori, allora che seguano un’altra strada.»
Autore: Luca Bignami.
Foto: Imago.
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