Sul rilascio dei visti il governo finge che tutto fili liscio. Eppure, come raccontato da Domani nelle scorse settimane, le procedure per garantire il rilascio dei documenti regolari e, quindi, partenze senza rischi, presentano più di qualche problema, che in alcuni casi sfociano in vere e proprie anomalie. Lungaggini, non risposte, poca trasparenza. Fattori che trasformano la richiesta di uomini e donne, ostaggio di paesi in guerra o di dittatura, in un vero calvario.
La prima a chiedere conto all’esecutivo delle storture del sistema è stata l’ex presidente della Camera, ora parlamentare del Pd, Laura Boldrini. Dopo aver denunciato l’applicazione arbitraria e discrezionale della normativa sul rilascio dei visti, in particolare da parte dell’ambasciata italiana in Libano, ma anche da altre rappresentanze consolari italiane all’estero, ha chiesto al governo con un ordine del giorno di impegnarsi «a rendere più efficiente e trasparente il sistema di rilascio dei visti per motivi di studio in favore degli studenti provenienti da Paesi in conflitto o in crisi, garantendo l’applicazione uniforme e non arbitraria delle normative, con procedure chiare e accessibili».
La risposta dell’esecutivo, affidata alla viceministra agli Esteri, Maria Teresa Bellucci, non si è fatta attendere. L’esponente di Fratelli d’Italia ha negato le evidenze e, con esse, le inefficienze delle ambasciate. Ma andiamo con ordine. Bellucci ha detto in aula: «Espunte le premesse, propongo di accogliere l’ordine del giorno, così continueremo a garantire l’efficienza e la trasparenza nel sistema del rilascio dei visti».
Tutto il contrario di ciò che aveva chiesto di considerare Boldrini, che infatti ha replicato elencando tutta una serie di dinieghi arbitrari motivati con “rischio migratorio” disposti dalle ambasciate italiane di Beirut e Damasco nei confronti di diversi studenti provenienti da Iran, Libano, Yemen, Iraq, Palestina, tra l’altro vincitori di borse di studio, decisioni che ora sono oggetto di ricorsi sia al Tar del Lazio che al Consiglio di Stato; procedimenti in cui è chiamato a rispondere, tra l’altro, lo stesso ministero degli Esteri. Ma le vicende di questo tipo in cui la Farnesina e le ambasciate sono chiamate a rispondere davanti ai giudici amministrativi, come evidenziano due report internazionali della società civile, Yalla Study e “Annick. Per il diritto all’unità familiare”, sono molteplici, e riguardano, in particolare, il diritto al ricongiungimento dei minori rimasti nei paesi di origine con i loro padri e madri che vivono in Italia.
Speranze
C’è chi come Sayed, cittadino afghano (nome di fantasia perché la sua vita è ancora in pericolo), ha aiutato l’esercito italiano e le altre forze internazionali nella guerra contro i Talebani e, per questo, quando sono tornati al potere, dal “paese delle aquile” ha cercato di fuggire immediatamente, già nell’agosto 2021.
Ma, per una sfortunata circostanza, una volta giunto all’aeroporto di Kabul, è stato separato dal resto della famiglia. Così, due dei suoi figli, tra cui un minore, sono riusciti a prendere il volo insieme a uno zio. Altri figli, invece, sono rimasti con lui insieme ad altri parenti, e sono intrappolati in Afghanistan ancora oggi.
La sua speranza di sopravvivere si chiama ricongiungimento familiare, se non fosse che l’ambasciata d’Italia a Teheran, a cui la domanda è stata rivolta dallo zio affidatario per conto del minore, ha bocciato la richiesta di visto verso l’Italia per Sayed, perché «dal nulla osta rilasciato dalla prefettura non si riconosce quale sia il legame di parentela», si legge nella incredibile motivazione, ora contestata da un ricorso urgente al tribunale civile di Roma presentato dall’avvocata Loredana Leo e in cui si chiede «il rilascio del visto per motivi familiari per padre di minore straniero non accompagnato». Intanto il tempo passa, sono trascorsi quasi due anni dalla prima richiesta di visto, e Sayed non solo è separato dal figlio, ma corre in patria un pericolo concreto e attuale per la propria vita.
Bloccati come Sayed, a rischiare la vita in Afghanistan ci sono i cinque figli e la moglie di un altro cittadino afghano che da diversi anni risiede in Italia, dove gli è stata riconosciuta la protezione sussidiaria.
Qui la vicenda ha ancor di più dell’incredibile, perché l’uomo sta provando a ottenere con una sentenza del tribunale di Roma il ricongiungimento con la moglie e i figli dopo un iter lunghissimo durato tre anni, comprensivo di numerose diffide alla prefettura di Roma e all’ambasciata di Teheran e, nel frattempo, i suoi famigliari sono ancora bloccati in patria.
Il motivo è presto detto. Secondo i funzionari consolari la domanda di visto non può essere accolta perché «il legame di parentela con l’autore dell’istanza di ricongiungimento non è dimostrato». Una motivazione che suscita qualche perplessità.
Condanna
«Questo comportamento dell’Ambasciata contravviene a quelli che sono i suoi obblighi di cooperazione nella prova dei legami familiari nel caso di titolari di protezione internazionale. Infatti, secondo la normativa nazionale ed internazionale, tra cui l’art. 29-bis TUI, quando i titolari di protezione non possano fornire documenti ufficiali che provino i vincoli familiari, dovrebbero essere le autorità diplomatiche e consolari a provvedere al rilascio di certificazioni», fa notare l’avvocata Loredana Leo. «La stessa normativa prevede che la richiesta di ricongiungimento non possa proprio essere rigettata per carenza di documenti sui legami familiari», dice. E poi aggiunge: «Viceversa, ciò che molto spesso vedo accadere è che l’Ambasciata non coopera affatto con i familiari dei titolari di protezione ma, anzi, rigetta de plano le domande proprio per carenza di documenti, con ciò contravvenendo a quanto prescritto dalle norme», conclude.
Soltanto all’avvocata Leo di casi come questi ne sono capitati una decina nell’ultimo periodo; e di ricorsi e contestazioni a provvedimenti arbitrari disposti dalle ambasciate italiane di Beirut, Damasco, Teheran, Islamabad, i tribunali italiani sono pieni, come Domani è in grado di dimostrare. Eppure, per la Farnesina è garantita l’efficienza e la trasparenza nel sistema del rilascio dei visti.
Dimentica – lo stesso Ministero degli Esteri – che, proprio di recente, è stato condannato dal tribunale di Roma al rilascio dei visti per ricongiungimento familiare in favore di quattro giovani donne, tra cui due minorenni, intrappolate in Afghanistan mentre la loro mamma era riuscita a fuggire in Italia, con i giudici che hanno scritto in sentenza: «A fronte di una carenza documentale determinata proprio dallo status di rifugiato della ricorrente (la madre delle ragazze) l’amministrazione pubblica avrebbe dovuto collaborare attivamente per verificare i rapporti familiari».
E, proprio nel caso in esame, si legge: «L’onere di cooperazione non risulta tuttavia assolto, non avendo il Ministero provato né allegato lo svolgimento di attività suppletive». Alla faccia dell’efficienza.
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