Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 45586/2024, udienza del 14 novembre 2024, si è soffermata sugli elementi differenziali tra il reato di violazione di sigilli previsto dall’art. 349 cod. pen. e la violazione amministrativa dell’agevolazione colposa della violazione di sigilli prevista dall’art. 350 cod. pen.
In ordine ai rapporti tra l’articolo 349 e l’articolo 350 cod. pen., nella giurisprudenza di legittimità è dato rinvenire due distinti approdi interpretativi.
Secondo un primo orientamento (Sez. 3, sentenza n. 29040 del 20/02/2013; Sez. 3, n. 19424 del 24/05/2006; Sez. 3, n. 2989 del 28/01/2000; Sez. 6, n. 4815 del 26/02/1993), il custode giudiziario per la sua qualità di soggetto destinatario di uno specifico obbligo di vigilanza sulla cosa affinché ne venga assicurata o conservata l’integrità – risponde della violazione di sigilli a meno che non dimostri che si verte in ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore.
Secondo diverso e più restrittivo orientamento (Sez. 3, sentenza n. 7371 del 13/07/2016, dep. 2017; Sez. 3, n. 50984 del 10/10/2013; Sez. 3, n. 16900 del 19/03/2015), ai fini della configurazione del reato di violazione di sigilli previsto dall’art. 349, secondo comma, cod. pen., nei confronti di colui che ha in custodia la cosa, la prova della sussistenza del dolo, che differenzia tale ipotesi delittuosa dall’agevolazione colposa sanzionata amministrativamente dall’art. 350 cod. pen., deve essere fornita dalla pubblica accusa e non può essere desunta dalla negligenza e trascuratezza del custode; tuttavia, è onere di quest’ultimo addurre gli elementi specifici che gli hanno impedito di attivarsi, qualora risulti accertato che egli, benché direttamente a conoscenza della effrazione dei sigilli, abbia omesso di avvertire dell’accaduto l’autorità.
Tale secondo orientamento si fonda sulla considerazione della natura necessariamente dolosa del reato di cui all’art. 349, cod. pen., la prova della cui sussistenza, sotto il profilo soggettivo, non può essere elusa mediante il ricorso a formule che, a fronte di un addebito formalmente doloso, dissimulino un rimprovero per un atteggiamento sostanzialmente colposo.
Sul punto, se da un lato va confermata l’impossibilità di prevedere qualsivoglia forma di responsabilità «oggettiva» in capo al custode, ovvero di addebitare allo stesso qualsiasi responsabilità «per colpa», dall’altro occorre sottolineare la necessità di non frustrare di fatto la ratio dell’istituto, consentendo al custode – attraverso una interpretazione «a maglie larghe» della norma incriminatrice – di porre in essere condotte totalmente negligenti ed omissive che, in ultima analisi, sterilizzerebbero la portata della norma.
In proposito deve essere evidenziato come la nomina del custode, che assume la qualifica di pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 9964 del 17/04/1985), pone in capo allo stesso un dovere giuridico di impedire che il fatto si verifichi: in altre parole, una posizione di garanzia, che, tuttavia, è tipico paradigma di attribuzione della responsabilità nei reati omissivi colposi.
Per evitare «tensioni» del sistema di imputazione della responsabilità, occorre considerare il rapporto di protezione che la legge impone tra il custode e la res come un «obbligo di attivazione», il quale si articola in modo «bidirezionale»: prima che il reato venga compiuto, mediante la previsione di un obbligo di porre in essere concrete attività volte ad evitare che altri violino i sigilli (attraverso, a mero titolo esemplificativo, la predisposizione di sistemi di sorveglianza o dissuasione); post crimen patratum, mediante la previsione di un obbligo di avvisare tempestivamente l’autorità giudiziaria, ove la violazione dei sigilli sia stata posta in essere da terzi.
La violazione di tali obblighi potrà, ove ne ricorrano nel caso concreto tutti gli elementi enucleati dalla giurisprudenza, essere imputata anche a titolo di dolo eventuale, posto che il delitto in parola è punito a titolo di dolo generico (Sez. 3, n. 27134 del 08/04/2015; Sez. 3, n. 21918 del 07/03/2008).
Conclusivamente, a fronte della violazione di tali obblighi e dell’onere probatorio assolto dalla pubblica accusa, anche sulla base di presunzioni o massime di esperienza, incombe sul custode dedurre, sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, l’assenza di profili di macroscopica inazione, tale da ricondurre la condotta (omissiva) nell’alveo del dolo eventuale, poiché è l’imputato che, in considerazione del principio della c.d. «vicinanza della prova», può acquisire o quanto meno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva (Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020; Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020).
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