“Poesia in (s)vendita” di Marco Nicastro –

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Una collezione di commenti intorno ad alcuni aspetti del mondo editoriale e, in generale, della cultura del nostro Paese. Con Poesia in (s)vendita, Marco Nicastro riaccende la discussione sul torbido che inquina il comparto culturale della Penisola.

Poesia in (s)vendita, ovvero Saggi irriverenti sulla poesia, l’editoria e la critica letteraria in Italia. Sono di per sé indicativi e eloquenti il titolo e il sottotitolo della nuova pubblicazione di Marco Nicastro uscita per Giuliano Ladolfi Editore, un agile saggino che raccoglie sei articoli incentrati sul panorama letterario italiano del nostro tempo e sui meccanismi, più o meno deviati, che ruotano attorno al mondo dei libri.

I commenti di Nicastro, redattore e collaboratore per vari blog e riviste culturali in rete, spaziano dallo stato della poesia in Italia – Paese di poeti – alle dinamiche più infide, più ambigue se non già perverse del mercato editoriale, passando per i retroscena e gli intrallazzi dei premi e dei concorsi letterari – due cose sostanzialmente diverse – e delle fiere del libro.

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Insomma, l’autore porta sul banco degli imputati tutti gli attori del comparto culturale del Paese e gli apostoli dell’“amichettismo” nostrano, termine oramai entrato anche nel linguaggio comune della nostra povera nazione.

La critica impossibile

Scrittori, direttori, giornalisti e redattori, che per quieto vivere o tornaconto personale sospendono la critica, strumento di democrazia divenuto inapplicabile, introvabile nelle pagine dei giornali cartacei e online, di fatto vietata se non si vogliono attirare su di sé le antipatie del personaggio di turno contiguo al “cerchio magico”. Giornali e riviste sempre più asserviti, drammaticamente genuflessi al diktat dei ducetti del discorso culturale contro cui non conviene andare.

 “Questo processo rischia di portare all’affermazione di un ‘canone’ letterario falsato, in cui si dice sempre bene delle opere degli autori più influenti o appartenenti a determinati gruppi di potere.”

Non siamo più un Paese per poeti

L’energica critica verso l’universo cultura del nostro Paese permea qua e là le pagine del volume, ma Marco Nicastro si concentra principalmente sull’analisi dell’impoverimento spaventoso che ha subito la nostra poesia. La patria di Dante, Leopardi e Ungaretti che non legge più poesia – i dati di vendita, in specie se vengono esclusi i classici della poesia, sono impietosi –, perché è proprio la poesia a essere cambiata e il nostro rapporto con essa. O forse siamo noi a essere cambiati, incapaci di mettere in moto quel processo razionale necessario per comprendere e riflettere sui componimenti, abituati come siamo adesso all’immediatezza, all’estrema sintesi, “a chiudere velocemente il cerchio della propria attività di comprensione”.

Questa può essere una ragione per cui i lettori trovano comodo rifugiarsi nella “prosa usa e getta di certa narrativa commerciale”, facilmente fruibile, senza sforzi cognitivi di rilievo, masticabile e digeribile con poca fatica. Uno svago, un divertissement, non precisamente la peculiarità principale che è richiesta a un libro.

I poeti oggi

Ma la crisi dell’ars poetica non è da imputare del tutto ai lettori. I lettori, per definizione, sono coloro che leggono, e leggono ciò che altri scrivono. Ebbene, anche ai costruttori di poesie – preferiamo non utilizzare in questa sede la parola poeta, ché di questi, prendendo in prestito le parole di Alberto Moravia ai funerali di Pier Paolo Pasolini, “ne nascono tre o quattro soltanto per secolo” – possono essere addebitate colpe. Nicastro ritiene che anche l’“eccessivo prosaicismo nel lessico e nella versificazione” del modo di fare poesia di oggi abbia contribuito alla depressione della poesia.

Messo da parte il pathos autentico, accantonata la ricerca del ritmo e della musicalità, la poesia si è ridotta da un po’ di tempo a mero esercizio di stile – una poesia artificiosa, manierista, stucchevole –, a uno scambio colloquiale, piatto, inespressivo, incapace di trasmettere qualcosa al lettore, di evocare in lui delle immagini: “Una poesia talmente lineare da divenire estremamente banale e che dice in fondo solo quello che dice, lasciando poco spazio all’immaginazione, dimentica delle potenzialità evocative della parola poetica”.

“Si stenta a credere che un genere così nobile e ben rappresentato nella nostra tradizione letteraria possa aver subito un simile destino.”

Una crisi che, in vero, da parecchi decenni viene di tanto in tanto denunciata. Già nel 1964 la poeta russa Anna Achmatova – esponente di spicco dell’Epoca d’argento della letteratura russa e grande amante della poesia e della lirica italiana – esprimeva il suo rammarico per il disinteresse del popolo italiano verso la poesia patria. E come lei certamente molti altri.

Editori sempre più imprenditori, sempre meno uomini di cultura

Poesia in (s)vendita di Marco Nicastro non risparmia delle stoccate anche per altri attori del settore editoriale, come quegli editori che pubblicano soltanto dietro il versamento anticipato di un contributo o l’acquisto di una certa quantità di copie da parte dell’autore – assolutamente non esente da colpe anch’egli, sia chiaro –, disposto a cedere a questa sorta di ricatto pur di dare forma alla sua ricerca di visibilità, poi quasi sempre effimera, a prendere in mano lo scettro della sua personale illusione.

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Svalutatissima è così la figura dell’editore, un tempo rappresentata da uomini di riferimento nel panorama culturale, centrali con il loro contributo nel processo di sviluppo del Paese e degli italiani – pensiamo ai vari Rizzoli, Mondadori, Bompiani, Frassinelli –, oggi, ovvero da qualche decennio, ricoperta da imprenditori come tanti che rispondono alle dinamiche tipiche di qualunque altro ramo dell’economia, cioè con l’obiettivo principale del profitto, con buona pace di Piero Gobetti che vedeva come suo editore ideale l’operatore culturale.

Una cultura piatta è “incultura”

Poesia svenduta, prosa ordinaria, una proposta letteraria sempre più scontata, appiattita e corrotta, un mondo libro sempre più elitario – a dispetto degli ipocriti proclami di inclusione e pluralità – e guidato e diretto al solo pensiero economico.

Il conformismo dilagante del dibattito culturale – quindi ciò che sempre Pasolini chiamava l’“incultura” – ha finito per guastare la letteratura e il compito culturale cui questa dovrebbe volgere. Con il tutto che, va da sé, si traduce in un pessimo servizio verso i lettori, sempre più apatici, anestetizzati, con la capacità critica per nulla stimolata, una facoltà di fatto azzerata, tanto da fare sembrare un insincero bastian contrario – che è una figura che pure esiste, per carità – chiunque esprima una personale opinione fuori dal coro.

Il deterioramento del Paese e del modello occidentale è sotto gli occhi di tutti. La domanda è se i nostri occhi sono ancora capaci di vedere o la nostra vista sia oramai irrimediabilmente compromessa.

Antonio Pagliuso



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