Another Kind of Justice. La giustizia di transizione

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Le transizioni democratiche e il dilemma della resa dei conti

Il 5 giugno scorso Fabricio Guariglia, direttore della “Hague Branch Office” dell’IDLO (International Development Law Organization), ed ex-direttore dell’Office of the Prosecutor della Corte Criminale Internazionale, nel suo intervento alJust Security’s Symposium, International Law in the Face of Russia’s Aggression in Ukraine: The View from Lviv”, ha dichiarato:
“Negli anni successivi all’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022, la comunità internazionale ha reagito all’aggressione con una varietà di risposte legali. Dal supporto ai procedimenti giudiziari interni agli sforzi per istituire un nuovo tribunale per il crimine di aggressione, l’Ucraina può rappresentare un caso unico di pieno utilizzo dei meccanismi disponibili all’interno del sistema esistente di giustizia penale internazionale. Durante un conflitto in corso, questo “ecosistema di responsabilità” ha risposto ai crimini in modi diversi e innovativi, utilizzando i quadri di diritto penale esistenti a livello nazionale, transnazionale e internazionale per perseguire diverse strade verso la giustizia”.

Prendo spunto dallo speech di Guariglia per il primo passo di una riflessione ponderata intorno al dilemma di quello che viene in senso generale definito, dalla scienza politica e dalla filosofia politica, come l’insieme di problematiche collegate alle «transizioni democratiche», ovvero le controversie in merito al difficile confronto – o resa dei conti – con le violazioni di diritti e di persone messe in atto da regimi autoritari, successivamente passati in fase democratica, come accade nelle cosiddette società post-conflitto.
I processi di transizione nei paesi post-conflitto pongono, oggi e temo ancor di più nel nostro futuro prossimo, questioni prominenti per l’agenda politica globale. Se volgiamo lo sguardo al passato possiamo pensare, per esempio, alla transizione democratica avvenuta negli anni Novanta in Sud Africa, dopo la fine dell’Apartheid o, in quegli stessi anni, alla ricostruzione politica dei paesi facenti parte dell’ex-Jugoslavia all’indomani delle guerre dei Balcani. Quali principi normativi, morali, etici e politici hanno governato e, in linea generale, dovrebbero informare tali processi?
È questa la domanda al cuore del crescente dibattito sulla “giustizia transizionale”. Vediamo, in breve, di cosa si tratta.

Che cos’è la giustizia di transizione

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Urgenza di un controllo sulla giustizia di transizione – Fonte: CUP

Differenti aree geopolitiche, durante gli ultimi due decenni del ventesimo secolo, hanno prodotto importanti trasformazioni politico-istituzionali. L’America Latina, l’Europa dell’Est, come anche alcuni paesi dell’Africa australe hanno assistito al disgregarsi di regimi militari o autoritari che da decenni imponevano politiche repressive e profondamente criminogene. Il dato politico e sociale che accomuna queste esperienze riguarda il fatto che la trasformazione dello Stato e il trasferimento dei poteri dai vecchi ai nuovi apparati siano avvenuti secondo modalità che potremmo definire «negoziali», secondo cioè progressivi (benchè in taluni casi molto violenti) processi di trasformazione di stati, assetti di governo e di costituzioni.
Questi processi di democratizzazione e di transizione politico-costituzionale che hanno traghettato paesi da esperienze illiberali verso embrioni di sistemi democratici hanno visto sempre con maggior forza l’affermarsi del problema di come applicare la giustizia rispetto ai crimini commessi nel passato: in tal senso, la giustizia di transizione (transitional justice o post-conflict justice) è divenuta uno dei fattori fondamentali per la costruzione della legittimazione dei nuovi sistemi democratici.
Questa forma di giustizia non corrisponde a un modello ideale (non è una giustizia à la John Rawls, per intenderci), ma risponde a una questione di fondo, e si impegna a ridurre il livello di disaccordo intorno a perlomeno tre dilemmi. La questione di fondo è la seguente: in una fase di transizione democratica – che la scienza politica definisce “processo di democratizzazione”-, quali modalità dovrà/potrà perseguire la nuova comunità politica, legittimata da intenzioni democratiche, per fare i conti con i crimini passati? I dilemmi con cui la cosiddetta giustizia di transizione ha a che fare sono, invece, di tipo legale, pratico-politico, giuridico:

  • Come stabilire una memoria collettiva condivisa?
  • Come determinare la responsabilità penale personale per i crimini commessi nel passato?
  • Come sostituire i vecchi apparati burocratico-amministrativi e militari responsabili di aver contribuito al consolidarsi dei regimi autocratici?

In altri termini, come amministrare questa post-conflict justice? È una giustizia diversa dalla nostra comune percezione di giustizia? Affrontare la questione della giustizia secondo la prospettiva transizionale significa cercare di trovare una soluzione ragionevole al dilemma giustizia-verità, sullo sfondo di circostanze emergenziali (che più facilmente prefigurano condizioni di eccezione) in cui si trovano tutte le cosiddette slipping democracies, paesi in fase di transizione da un passato di violazioni di diritti verso un futuro di stabilità ragionevole. La giustizia di transizione si assume, in altri termini,  l’impegno di favorire un ragionevole passaggio da un passato di divisione a un presente di con-divisione.

Fare giustizia o fare la pace?

L’articolazione di questa dinamica alternativa di giustizia si è sviluppata secondo due direttrici principali. In primo luogo, e a un primo livello di generalizzazione, è plausibile affermare che i sistemi di giustizia post-conflitto istituiti durante i processi di transizione costituzionale abbiano ovunque subito l’influenza di due forze opposte: da una parte si è registrata la tendenza della comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite e attraverso alcune importanti organizzazioni non governative, ad esercitare una forte pressione affinchè si facesse giustizia con modalità strettamente giudiziarie e sulla base di principi elaborati a livello internazionale (caso balcanico); dall’altra, invece, si è assistito al tentativo di alcuni paesi in transizione, di affermare, sul piano politico-criminale, forme di giustizia post-conflitto, autonome rispetto a quelle più classiche elaborate nell’ambito del diritto penale internazionale. È emblematico a questo proposito il caso del Sudafrica, che ha rifiutato ogni ingerenza internazionale nel processo di “dealing with the past” dei crimini commessi durante l’apartheid, ed ha istituito un modello di giustizia completamente innovativo: la South African Truth and Reconciliation Commission*[1].

In secondo luogo, si è assistito alla contrapposizione – ma sarebbe più opportuno dire alla coesistenza – tra due modelli di giustizia di transizione: la giustizia retributiva e la giustizia restaurativa. Il modello retributivo – quello classico cui pensiamo quando pensiamo a un modello di giustizia – è caratterizzato dal processo penale, dalla figura del giudice, dalla centralità del momento sanzionatorio e da un rituale fortemente agonistico. Si tratta del modello dominante nelle recenti transizioni politico-costituzionali in paesi come Cambogia, Sierra Leone, Kosovo: in questi casi le Nazioni Unite, seguendo la linea della lotta all’impunità e del “duty to prosecute[2]), hanno affermato l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale verso i responsabili dei regimi criminali, ad opera delle forze politiche democratiche che sono succedute.

Presenza delle TRC (Truth and Reconciliation Commissions) nel mondo.

La giustizia restaurativa (restorative justice), sviluppata in un primo tempo a livello dei sistemi giuridici nazionali[3], successivamente ampliata ed entrata a pieno titolo nel dibattito sulla giustizia di transizione, prevede invece differenti tipologie di procedure giustiziali: alternative dispute resolution, victim-offender mediation, victim centred approach, family group conferencing. Queste tipologie di giustizia restaurativa sono state incorporate nei Truth and Reconciliation Commission Models (come, appunto, nel caso delle Commissioni latino-americane e della Commissione sudafricana).
Le principali differenze tra i modelli di giustizia retributiva e restaurativa, in particolare, si possono riassumere nel diverso ruolo del giudice, della sentenza, della pena, e – elemento centrale e cruciale – in una concezione assai dissimile del ruolo della vittima. Nei modelli di giustizia restaurativa è infatti centrale lo sforzo di ricostruire un dialogo, o una nuova relazione, tra vittima e perpetrator (che, molto spesso, coincide con la nuova forza politica al governo nella fase post-conflitto): per ottenere tali obiettivi è necessario ridurre lo spazio della sanzione di tipo retributivo, e porre al centro dell’attenzione le istanze delle vittime.

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Il problema – e l’interesse principale – di qualsiasi tipologia di transitional justice risiede dunque nella consapevolezza che la questione non sia meramente giudiziaria, ma che abbia conseguenze e radici più profonde e controverse, che una logica meramente procedurale non sarebbe in misura di valutare, e superare.
Il confronto tra paradigma retributivo e paradigma restaurativo di giustizia solleva così importanti questioni teoriche e normative, che investono il significato stesso della giustizia retributiva, e la sua possibile, o desiderabile, negoziabilità. Il confronto tra paradigma retributivo e paradigma restaurativo di giustizia formalizza l’alternativa tra giudicare e perdonare in quanto strategie efficaci e alternative alla ‘vendetta’, per governare transizioni democratiche. I due paradigmi riflettono visioni divergenti della giustizia e differenti visioni del rapporto tra giustizia e bene pubblico.

Tra perdono e risarcimento: la balanced truth della giustizia di transizione

Lo scopo prioritario di una giustizia transizionale è conseguire stabilità a scopi protettivi, o trovare verità cui vincolare le condizioni alle quali scopi sociali e morali possono essere perseguiti? La stabilità è una ragione sufficiente per sacrificare la giustizia? Esistono ragioni sufficienti per sacrificare la giustizia?  La verità, e il suo processo di ricerca, sono ragioni sufficienti per sacrificare la giustizia? E di quale verità si tratta?
La giustizia di transizione si occupa di sciogliere i nodi del difficile equilibrio tra giustizia e verità, retribuzione e riparazione, memoria e oblio, passato e presente. Il confronto tra un paradigma retributivo di giustizia, che prescrive di punire i responsabili delle violazioni, e un paradigma riparativo, incentrato su dinamiche terapeutiche e riparative orientate alla riconciliazione, lascia aperte questioni teoriche e normative che coinvolgono il significato della giustizia retributiva e la sua possibile, o auspicabile, desiderabilità, fattibilità, negoziabilità. Qualsiasi tentativo di bilanciare esigenze normative e impegni politici è, tuttavia e dato l’attuale e persistente scenario internazionale, inevitabile e dilemmatico.

Affrontare il passato seguendo un percorso di riconciliazione richiede la mobilitazione di una serie di risorse e di tecniche, e la giustizia di transizione è una di queste. Il resoconto storico attraverso il “truth-telling” portato avanti dalle parti in causa, per esempio, è uno dei passaggi più importanti nel processo di riconciliazione che la versione restaurativa di giustizia di transizione antepone a qualsiasi istanza retributiva.
In sostanza, le assunzioni legalistiche del paradigma retributivo di giustizia, che prevede l’obbligo di perseguire e di punire i responsabili di violazioni, sono messe in questione da questo paradigma di giustizia alternativo, centrato su dinamiche terapeutiche e riparatorie, il quale:

a) condanna ma non sanziona;
b) dà luogo a istanze provvisorie che devono stabilire verità (su questo punto tornerò tra breve);
c) si muove nella contingenza della fragilità di ogni slipping democracy;
d) sulla sua scena mette al centro la vittima.

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Quattro principi rendono la giustizia di transizione, nella sua versione restorative, “alternativa”:

  • il crimine inteso come violazione di un individuo da parte di un altro (e non come violazione di regole);
  • la ricerca di consapevolezza da parte degli autori dei crimini, per riparare e prevenire (che si formalizza in una richiesta pubblica di perdono);
  • le modalità di rimedio e prevenzione, decise dalle parti attraverso una deliberazione nell’ambito di un processo informale e consensuale (i già citati processi di victim-offender mediation, reconciliation program, conferencing, family group conference, circle sentencing);
  • vittima e colpevole devono trovare un modus vivendi, nell’ambito del quale il colpevole deve essere re-integrato.

È importante sottolineare, come già notato nell’incipit di questo pezzo, che la versione retributiva e la versione restaurativa della giustizia di transizione non sono in contrapposizione, ma che, anzi, condividono alcuni impegni, tra cui:

– affermare e ripristinare la dignità di coloro che hanno subito abusi:
– rendere visibili e riconoscibili coloro che hanno commesso abusi;
– creare nuove condizioni sociali entro cui siano rispettati i diritti.

Se questo è vero, in che senso diventerà allora normativamente accettabile cercare un equilibrio tra esigenze retributive e esigenze restaurative? Che cosa significa ripristinare un ordine violato? In senso restaurativo, la riconciliazione è prioritaria, e fare la pace l’obiettivo principale; in senso retributivo, fare giustizia è prioritario, perché quanto la giustizia richiede non potrà essere valutato in riferimento a considerazioni di impatto politico, né esigenze contestuali potranno mai condizionare le prestazioni che richiediamo alla giustizia di un tribunale. In tal senso, sembrerebbe affermarsi la necessità di conoscere la verità, e che il riconoscimento della verità sia il solo modo affinchè un processo di riconciliazione avvenga e avanzi. In alcuni casi è sicuramente così. Ma non in tutti, e non nel caso in cui si riconosca – come sembra avvenire tra gli esperti di relazioni internazionali in merito ai conflitti in corso – che la riconciliazione sia un processo, e non un obiettivo da raggiungere.

Diventa allora forse più chiaro come ragionare sulla giustizia di transizione significhi concentrarsi sull’ineludibile, ma estremamente difficile, compito di bilanciare le esigenze normative con gli impegni politici riguardo a ciò che la giustizia richiede. Una società in transizione verso un nuovo regime non può trovare fondamenta solide in una versione parziale della verità: il rispetto dello stato di diritto o dei diritti dei singoli sembra incompatibile con l’impunità per coloro che li hanno violati. Nel contesto della giustizia transizionale sembra che verità e giustizia non possano che procedere insieme, sembra che abbiano bisogno l’una dell’altra. È dunque necessario elaborare un modello di giustizia transizionale che, da un lato, non si basi su un compromesso strumentale tra verità e giustizia e, dall’altro, prenda in considerazione l’inevitabile connessione tra giustizia retributiva e giustizia riparativa.

Ma cosa accade alla verità quando viene pubblicamente riconosciuta, cioè quando diventa parte della scena pubblica, e cosa succede alla politica in conseguenza di tale riconoscimento? Il perdono può essere un concetto politico? L’amnistia è una buona soluzione? Ragionare in termini di giustizia di transizione significa riflettere anche su cosa significhi esattamente il perdono in politica, su come esso sia connesso ad altre idee e concetti politici – come la memoria – e se si tratti di una pratica che, in taluni casi perlomeno, possa rivelarsi coerente con gli impegni e i valori politici delle parti in causa. Considerare il perdono in questo modo significa intraprendere la strada per mappare teoricamente e politicamente i suoi significati, i suoi usi e, infine, i suoi abusi, data l’inconciliabilità del perdono con il carattere imperdonabile di alcuni mali politici. Scopo di una riflessione teorica sulla giustizia di transizione non sarà, quindi, quello di assegnare un significato definitivo alle due categorie, giustizia e verità; l’analisi sarà piuttosto indirizzata alla comprensione della loro interazione, definita nei termini di tensione da ricomporre, o – economically speaking – di trade-off.

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Conclusioni

Nei casi e contesti storici finora esaminati o solo accennati, la cosiddetta giustizia di transizione sembra “schiacciata” tra due forze opposte: la necessità di preservare la riuscita del processo di trasferimento del potere politico dai vecchi apparati autoritari verso nuovi attori politici «democratici» (il che implica una sostanziale rinuncia ad esercitare l’azione penale nei confronti di coloro che hanno commesso crimini politici nel vecchio ordine costituzionale), e l’opposta duplice necessità, da un lato, di soddisfare le tensioni di matrice retributiva delle vittime e, dall’altro, di non rinunciare a delegittimare i vecchi oppressori attraverso lo strumento del diritto (in chiave giudiziaria).

“Injustice anywhere is a threat to justice everywhere”
(Martin Luther King, Letter from Birmingham Jail, 19 Maggio 1963)

              

[1] La TRC sudafricana sarà tema di un prossimo articolo di ME.

[2] Il principio elaborato dalla dottrina internazionalistica in materia di crimini internazionali, che prevede un obbligo, in capo agli Stati che succedono a regimi criminali, di perseguire penalmente gli autori di tali crimini.

[3] Si pensi al caso italiano di transizione dal fascismo alla democrazia, tema di un prossimo articolo di ME.

 

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