“Da noi la vendetta si mescola alla rivincita degli sfigati”

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La prima stagione di The Bad Guy, arrivata su Prime Video nel 2022, diceva chiaro e tondo che anche in Italia si poteva fare sano intrattenimento da piattaforma. Forse anche qualcosa di più. Ora, a due anni di distanza, ecco un secondo capitolo con altri sei episodi. In regia ancora Giancarlo Fontana, classe 1985, e Giuseppe Stasi, annata 1986, rispettivamente anche montatore e sceneggiatore – quest’ultimo assieme a Ludovica Rampoldi e Davide Serino – della serie, girata anche a Palermo, in cui il palermitano Luigi Lo Cascio interpreta un ex magistrato che dopo un arresto è evaso, si è rifatto i connotati e va a caccia di mafiosi. Uno show brillante, ironico, feroce. Un unicum, che “se fosse stato proposto a un produttore oggi, sarebbe diventato di sicuro un’altra roba, più farsa, più commedia” affermano Fontana e Stasi. “In questi anni ci hanno fatto complimenti anche i competitor” continuano i due. “Ma nel panorama dell’audiovisivo di adesso, nessuno avrebbe investito per un progetto come questo”.

La seconda stagione di The Bad Guy si è portata dietro più responsabilità o libertà?

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Fontana: Ha comportato sicuramente una maggiore responsabilità nel dover mantenere il livello raggiunto dalla prima stagione, che aveva settato un’asticella molto alta. Quindi c’erano aspettative da soddisfare, obiettivi da rispettare. Non volevamo rovinare quanto di buono era stato fatto. E la difficoltà più grande che si è unita è stata quella del tempo. Perché in Italia pensiamo la realizzazione delle seconde stagioni al rovescio: con meno tempo e risorse a disposizione. Bisognava insomma fare meglio, ma con meno mezzi. Ma da grandi problemi arrivano grandi opportunità, parafrasando lo zio Ben. Ci siamo dovuti ingegnare. E fare un mazzo tanto.

Stasi: In questi casi poi il pericolo è proprio quello di fare bene e di farlo con poco, perché rischi di creare un precedente. Ma noi ci siamo portati avanti, e abbiamo già allertato i nostri legali (ride). Il ritorno sul set della serie è stato però come indossare un vecchio vestito e vedere che ti va ancora bene. Una volta lì sapevamo tutti, da noi agli attori, esattamente cosa fare e come farlo.

Da parte di Amazon c’è stata subito fiducia per il rinnovo di questo nuovo capitolo?

F: In un mondo ideale il processo creativo dovrebbe iniziare un istante dopo aver finito le riprese della prima stagione. Soprattutto per un racconto che si chiudeva in quella maniera lì, in sospeso. In realtà, e purtroppo, non è stato così, perché le piattaforme hanno logiche e numeri tutti loro. L’algoritmo è impietoso e non guarda in faccia a nessuno.

S: Quello che serve capire è che i dati delle piattaforme non sono dati oggettivi. Un film o una serie sulle piattaforme è un successo quando raggiunge un determinato obiettivo interno, non quando raggiunge un determinato numero in classifica. Se rispettano l’obiettivo è un successo, se non lo fanno un fallimento. La prima stagione di The Bad Guy ha avuto un buon riscontro, diciamo che è stata una via di mezzo. Per questa stagione abbiamo dovuto aspettare che si componesse un budget capace di sostenere quella qualità che avevamo toccato con la prima. Perché nel frattempo con l’inflazione i costi produttivi erano lievitati del 35% e occorreva attendere gli accordi con i nuovi partner, RAI e Fifth Season. Lo sforzo da parte di Indigo Film di mettere in piedi il budget è stato però encomiabile. Inizialmente hanno finanziato di tasca loro la scrittura della sceneggiatura, che ha richiesto anche un team più ampio rispetto a prima.  

In cosa si differenzia di più la seconda stagione?

S: Dovevamo esplorare dinamiche in termini e sfumature che in precedenza avevamo solo accarezzati. Sentivamo la necessità di inseguire una deriva molto più tragica. Il nostro è il Paese delle manovre finanziarie storte, dei nuovi codici della strada raffazzonati, dei carabinieri che incespicano nell’usare un computer o una stampante. Ma dall’altro lato la storia del nostro Paese è anche profondamente tragica. Fino ad ora la serie era sui toni della farsa, con risvolti un po’ grotteschi, un po’ comici. Doveva arrivare una svolta drammatica. Anche se non ci fidiamo dei film che parlano delle faccende italiane in termini troppo austeri. A quelli noi non crediamo mai.

In Italia non si può parlare di stato senza parlare di mafia, e viceversa?

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S: In questo Paese si tende sempre al manicheismo. Ad esempio quando si parla di fascismo, che è un atteggiamento invece filosofico, della filosofia della prepotenza del più forte esercitata sul più debole. La stessa cosa per la mafia. La mafia permea tutto, è un comportamento clientelare e ricattatorio. Noi siamo i migliori e dobbiamo sopraffare gli altri. Si annida in ogni cosa, nella politica, nell’economia, nello sport, persino nel cinema. Anche lo zio medico che ti fa il ticket per saltare la fila è, nel suo piccolo, un piccolo atteggiamento mafioso.

Come si traduce nella resa della serie quella relazione tra farsa e dramma di cui dicevate prima?

F: Non c’è un metodo, non c’è un pensiero prestabilito. Spesso quando si pensa di avere in mano una formula magica per replicare un successo, o ottenere una data reazione, spesso si finisce per fallire. Non è qualcosa che si può inscatolare e formalizzare in una serie di regole. A volte in questa realtà in cui si ha così tanta paura degli insuccessi e del pubblico, che si spera di assecondare e accontentare a tutti i costi, si è tentati di utilizzare formule con cui dare quella determinata roba lì. Noi siamo invece convinti che il pubblico non sappia quello che vuole. È nostro compito, di registi e professionisti, dare al pubblico qualcosa di nuovo.

S: Nella prefazione del Faust di Goethe c’è una citazione che in questi casi trovo appropriata: “Bisogna confondere il pubblico, perché accontentarlo è impossibile”. E sintesi di questo penso la faccia molto bene Barton Fink dei fratelli Coen, dove un autore teatrale di Broadway va ad Hollywood e incontra un produttore, che sul finale gli dice qualcosa come ‘tu pensi di essere l’unico, ma io come te ne trovo dieci mila’. Ecco, questa è l’illusione dei produttori che l’impronta autoriale possa essere codificata in regole. Pensiamo anche alla Disney, che negli ultimi anni ragiona in ottica di scelte volte ad accontentare ogni singola fetta di pubblico e minoranze. Queste però non sono logiche etiche, ma puramente economiche. Illudendosi che questa formula potesse funzionare, anche loro hanno incontrato i propri flop. Come quando noi pensavamo che per il pubblico italiano andassero bene solo i panettoni, e invece ora quel pubblico va a vedere pure Berlinguer – La grande ambizione.

Con la scelta degli attori l’approccio invece qual è? Avete iniziato con Luigi Lo Cascio, che al cinema esordiva nel ruolo di Peppino Impastato ne I cento passi, lo avete rovesciato. Mentre nella seconda stagione prendete attori comici, come Aldo Baglio e Antonio Catania, e li tramutate in mafiosi.

F: Anche in questo caso non abbiamo un piano prestabilito. Non ci sediamo a tavolino per cercare di portare avanti una cifra autoriale. Quando cerchiamo gli attori adatti per interpretare i personaggi pensiamo a chi ci piace e con chi vorremmo lavorare. Uno dei vantaggi del nostro mestiere è poter collaborare con i propri idoli, persone che hai seguito e idolatrato, di cui conosci a memoria le battute, come ad esempio Aldo Baglio con il trio di Aldo, Giovanni e Giacomo. Un pensiero che c’è dietro è però sicuramente quello di provare a ribaltare quello che si aspetta il pubblico, cambiando chiave e tono rispetto ai volti che gli spettatori si trovano di fronte. Lo sforzo è quello di immaginare gli attori lontani dalla zona di comfort. Crediamo che sia una cosa interessante da vedere e soprattutto per loro da interpretare.

Avete visto Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza?

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S: Sì, e ci è piaciuto molto.

Pensate sia un film in dialogo con la vostra serie?

S: Sì, troviamo che Iddu abbia una grande sensibilità nei confronti di quella che è la smitizzazione della mafia. In Italia troppo a lungo abbiamo avuto o le fiction sui magistrati, o quelle sui cattivi carismatici in stile Gomorra. Con Fabio e Antonio condividiamo un approccio dissacrante nel tentativo di descrivere quella miseria là, quel nulla in cui si annida la mafia. Perché la mafia è molto misera, a differenza della camorra, che invece tende all’eccesso e al lusso. Misera nei modi, nonostante sia molto ricca. Ci arriva spesso l’immagine di questi capimafia arroccati nei loro casali, in situazioni di indigenza, in ritiro quasi francescano, monacale. È una cosa a suo modo molto affascinante. Basta pensare a quando vengono catturati e stanno sempre male, in ciabatte e canottiera in mezzo ai pizzini. Noi siamo del sud, di Matera, conosciamo la provincia, la campagna e quei posti li intuiamo. Ma Fabio e Antonio forse conoscono anche più da vicino la sensazione di sporco che si annida in quei casali.

Che rapporto ha il nostro Paese con i concetti di giustizia e di vendetta, che sono centrali in The Bad Guy?

S: Per capirlo basta guardare alla nostra attualità. Da noi la vendetta si mescola alla rivincita degli sfigati. Ma non all’immagine tipica degli sfigati americani un po’ nerd, che magari vanno a vincere il Nobel. Da noi ci sono gli sfigati underdog, o di chi perlomeno si professa underdog nei comizi. Che usa un ruolo di potere conquistato come rivalsa nei confronti di chi sta dall’altra parte. E così chi arriva al potere mette in atto una vendetta contro un nemico che, alla fine, nemmeno esiste, mandandoci spesso di mezzo i poveracci che non c’entrano niente. Oggi vedo così il concetto di giustizia, anzi ingiustizia, nel nostro Paese: fare di tutto per arrivare in un luogo privilegiato e dire ‘adesso vi faccio vedere io’.

Nel 2010 avete iniziato sul web, poi siete arrivati nei programmi TV satirici di Sabina Guzzanti e Nerì Marcore, quindi avete esordito al cinema e ora avete all’attivo anche una serie su piattaforma. Sono stati quindici anni intensi?

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F: Siamo stati molto fortunati, non ci possiamo lamentare. Con The Bad Guy a dire il vero è come se un cerchio sia andato a compimento. Quando abbiamo iniziato a fare web si parlava infatti molto dei rischi e delle possibilità di questo sistema, di quanto fosse sostenibile e di come si potesse fare in maniera democratica. E come spesso accade le cose positive si ribaltano, diventano sfruttamento e si fanno negative. Ai tempi avevamo allora capito di dover prendere le distanze dal mondo delle webserie. Ma alla firma del contratto abbiamo notato una piccola nota in fondo, che diceva che stavamo firmando per una serie destinata all’esclusivo sfruttamento sul web. Quindi sì, alla fine è come se pure noi avessimo fatto la nostra prima webserie.

S: Ci rivedo molto nel concetto di Match Point di Woody Allen, nella pallina sulla rete. Il nostro primo film per il cinema, Metti la nonna in freezer, è stato un evento di fortuna. E forse è stato un evento di sfortuna per qualcun altro. Alti e bassi ci hanno forgiato molto, poi con l’arrivo del Covid abbiamo rimesso di nuovo tutto quanto in prospettiva. In quel periodo abbiamo accumulato una tensione filmica imponente, che dovevamo espletare in qualche maniera, ecco così The Bad Guy. ‘Nascere e morire a ogni progetto’: è una citazione da Studio 60 on the Sunset Strip, una serie di Aaron Sorkin con Matthew Perry che non ha visto nessuno, ma che fa al caso nostro.

Oltre che registi, The Bad Guy vede Stasi nel ruolo di sceneggiatore e Fontana in quello di montatore. Questa presenza lungo la filiera artistica è una necessità autoriale o il sintomo di una mania di controllo?

S: Mania del controllo, assolutamente. Ma a parte gli scherzi, è difficile trovare nelle serie italiane un paragone simile alla nostra esperienza con The Bad Guy. In italia si tenta sempre di imitare, senza riuscirci davvero, la figura americana dello showrunner, che ingloba al suo interno molteplici ruoli, dal regista al montatore e al produttore. Noi ad esempio non potremmo farlo, perché non abbiamo nessuna competenza produttiva. Quindi non è questo il nostro caso, ma essere presenti anche in fase di sceneggiatura e montaggio ci ha permesso di avere una maggiore certificazione di qualità. Siamo minuziosi, ossessivi, forse abbiamo addirittura mandato qualche collaboratore in terapia. Dovendo creare un mondo coerente, non puoi farti sfuggire nulla, nemmeno la posizione di un mobile.

E dopo tutti questi anni avete capito cosa preferite fare? TV, film, serie televisive?

F: Più che dai generi e dalle forme, noi siamo innanzitutto appassionati di storie. Leggiamo tanto, stiamo leggendo tanto, e cerchiamo sempre di ampliare gli orizzonti. La storia regna, la storia comanda. In questo periodo ci appassionano le storie vere, che pensiamo funzionino molto al cinema. La verità in questo momento paga, e noi la stiamo cercando come la cerca Nino Scotellaro. Però al momento basta con la serialità: sta bene nel cassetto del mobile di un’altra casa di un’altra città.

S: Per adesso siamo un po’ stanchi delle serie, portano via molte energie. Certo, se arrivasse un grosso nome straniero e ci chiedesse di dirigere una puntata di un progetto più ampio, probabilmente accetteremmo. Come accadde a Emanuele Crialese con Trust di Danny Boyle, insomma. Ci piacerebbe cimentarci con qualcosa in lingua inglese.

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Nell’immediato futuro allora cosa vi aspetta?

F: Non possiamo ancora dire molto, ma stiamo lavorando a un progetto che ci vedrà tornare al cinema. E sì, sarà proprio con una storia vera.

fonte Today.it



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