Oltre le cuciture: storie senza misura

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Ogni abito porta con sé un segreto, una memoria silenziosa che sfida la superficie. Conserva il ricordo dei corpi che ha accolto, dei sogni infranti o realizzati, delle insicurezze celate.

Dietro ogni cucitura si cela un manifesto, un frammento di libertà cucito nel linguaggio universale della Moda. Gli abiti non sono oggetti, ma testimoni. Raccontano di mondi non detti, di rivolte silenziose e di libertà che nessuna etichetta riuscirà mai a confinare.

Ecco che si sedimentano storie cucite addosso, vere e proprie emanazioni di corpi, un’eco del mondo tangibile ne I racconti della moda (Einaudi 2024) a cura di Maria Luisa Frisa: una raccolta dove capi e accessori si trasformano in osservatori, narratori e persino protagonisti di vite e immaginari. Con grande perspicacia, Frisa predilige storie in cui gli oggetti di moda diventano emanazione di un io allargato, il cui movimento centrifugo investe pelle e tessuto sino a estendersi tutt’intorno, inglobando persone e cose. Tra il me-carne e l’interfaccia tessile del vestito c’è uno spazio vuoto dove convergono i generi dei discorsi di moda, un’intercapedine “che sta tra noi e il mondo, […] tra ciò “che siamo e che vorremmo essere”, tra la nostra identità e quella di chi ha ideato gli abiti.

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Nei criteri di selezione di Frisa sicuramente c’è – come affermato nell’introduzione, e, a più riprese, nei testi di commento ai racconti – un forte tratto autobiografico che premia le storie “relatable”, cioè quelle in cui ci si può identificare, ma anche, nell’altra accezione di questo forestierismo ormai diffuso nella nostra lingua, raccontabili perché rilevanti e soddisfacenti. I racconti della moda di Frisa si diramano in quattro direzioni: quella del sensibile puro (bell hooks, Michela Murgia, Kim Fu, Joyce Carol Oats); dei vestiti che parlano al posto della persona (Tanisha C. Ford, Jhumpa Lahiri, Bret Easton Ellis); delle norme stringenti, spesso infrante (Irene Brin, Lucio Ridenti, Flavia Piccinni, Steven Millhauser); e dell’espressione ludica (Paola Colaiacomo, Gianna Manzini, Stefano Pistolini, Pier Vittorio Tondelli). Il sensibile puro ha il senso unico dell’abito come trigger, dell’abito che innesca un’esaltazione degli stati corporei euforici e disforici, che fanno sentire brividi di paura o di estremo piacere. Il velluto bagnato sul seno nudo, il cachemire di hooks, quello del “magnetismo elementare – qualcosa che permane e che sostiene, come il ricordo appassionato del vero amore”. Una memoria del corpo o degli oggetti? Forse il punto comune è lo sguardo dell’alterità su entrambi? Sì, attraverso la tattilità dello sguardo la pelle assume uno strato ulteriore di sensibilità, come se quel tessuto facesse sentire dall’esterno e dall’interno riempiendo le intercapedini tra i corpi della relazione con tante, piccolissime e invisibili, terminazioni nervose. Come quando ci si sfiora e si prende la scossa, sentendo un fremito.

L’oggetto di moda è innervato da tracce che raccontano la storia e il contesto della sua esistenza, l’identità del designer, il modo di essere di chi dovrebbe indossarlo, e l’alterità di chi dovrà esperirlo a distanza, osservandolo. Tali istanze permeano l’intero discorso vestimentario. Un indumento gemma dalla concezione della moda di chi lo crea e preconizza un corpo ideale che dovrebbe indossarlo, capace di interpretare al meglio uno stile e un modo di essere. La previsione della forma del corpo reale incide sulla dimensione sensibile e si trasforma in codice da cui deriva la legiferazione di canoni estetici. A tale proposito, Frisa racconta di Charles James che lascia gli studi di medicina per creare abiti da sera finalizzati a rimodellare il corpo femminile, da lui considerato “intrinsecamente sbagliato”.

Il/la designer non disegna solo un abito: immagina un corpo. Un corpo docile, stilizzato, che si piega alle regole di una griglia interpretativa che tenta di incasellare la varietà umana in categorie definite. Una griglia scioccamente universale che standardizza, riduce, impone. L’origine di tutto sta su un foglio di carta: il figurino. Un disegno bidimensionale che non conosce carne, ossa o movimento, ma solo linee pulite e proporzioni perfette. Da qui prende forma il cartamodello, l’archetipo dell’abito che, una volta confezionato, dovrà confrontarsi con la complessità del mondo reale. La moda, che dovrebbe celebrare la varietà del corpo umano, lo racchiude in una misura rigida, ignorando che ogni corpo è una narrazione unica, irriducibile a un numero o a una lettera. In Taglie antagoniste, Frisa spiega che nel racconto di Ford dal titolo “I jeans baggy”, vale a dire larghi, cadenti sui fianchi, viene addotta la loro origine a motivazioni di ordine economico, che spingono a risparmiare ereditando vestiti di amici e famigliari, spesso di una misura sbagliata. L’abbigliamento oversize diventa caratteristico di un modo di estrinsecare l’afro-discendenza al ritmo di hip-hop, poi fagocitato dal sistema moda e triturato nel macinino dello streetwear. Le dimensioni di un abito, la sua vestibilità costituiscono ancora una tensione eroica, e le taglie sembrano ancora essere la misura del mondo che però dimenticano la terza e la quarta dimensione del corpo, cioè solidità e movimento. Con i vestiti indosso ci muoviamo, e così un jeans skinny aderentissimo può essere scomodo come un baggy che si mantiene con la mano mentre si salgono le scale, stando alle parole di Ford. Un capo voluminoso significa che si sta sgomitando per occupare un posto nel mondo, mentre il suo assottigliamento ha una doppia accezione: libera il corpo e alleggerisce i costi di produzione.

Al senso comune piace molto il verbo “normalizzare”, orrore semantico della riduzione della differenza, ed è ciò che accade con le taglie globalizzate. Non è una questione di culturalizzazione del corpo naturale: come direbbe Gianfranco Marrone, ci sono più nature e altrettante culture di cui tenere conto.

Eppure, la moda continua a configurare il corpo attraverso la lente della misura campione (fit sample), trasformando l’identità in un dato numerico. La taglia non è più solo un’indicazione tecnica, ma un’etichetta simbolica che condiziona il modo in cui vediamo noi stessi e gli altri. In corso ci sono molte polemiche sull’irrealismo della misura campione, basata sulla proporzione aurea non ufficiale vigente nel sistema della moda che richiede petto e fianchi di circonferenza 90 cm, mentre la vita 60 cm. Per rimanere nell’ambito dei riferimenti tracciati da Frisa, Bret Easton Ellis, in Glamorama (1998), rende le misure una prerogativa del ruolo tematico di modella: “labbra piene, magrezza all’osso, seni grandi (rifatti), gambe lunghe e muscolose, zigomi alti, grandi occhi azzurri, abbronzatura perfetta, naso diritto, una vita di 58 cm, un sorriso che non diventa mai un ghigno”. Dopo vent’anni, in un articolo pubblicato su Vogue Italia, luglio 2019, n. 827, Ellis aggiorna la questione delle misure estendendola alla sfera social mediale dove la visualizzazione compulsiva dei contenuti aumenta il divario tra corpi – alla moda vs. tutti gli altri – perché la bellezza non è più esclusiva, ma viene comunicata come un oggetto di valore ottenibile al costo di ‘sacrifici’. Così, sempre più persone, ancora nell’età dello sviluppo, si sottopongono a pratiche chirurgiche, spesso sottocosto e senza criterio, con esiti nefasti. E qui ritorna, ancora una volta l’imperativo dell’attirare gli sguardi. Si nota nel senso della parola “visualizzazione”, o ancora nella continua ostensione di corpi che vogliono essere guardati e pagati su OnlyFans. Permane tra le righe dei testi pubblicitari, o nelle narrazioni filmiche l’implicito del “far girare la testa”: Parthenope di Sorrentino, ad esempio, è un film che conferma il trend di cooperazione tra moda e cinema tramite la collaborazione della maison francese Saint Laurent in quanto casa di produzione e partecipazione ai costumi del direttore creativo Anthony Vaccarello. La protagonista Parthenope sembra esistere – dalla nascita – solo per attirare lo sguardo maschile, anche se inconsapevolmente.

L’imperativo del voler gli occhi su di sé, compresi i propri, si riflette nello specchio della fotocamera anteriore, dove chi si guarda spesso desidera di avere il volto permanentemente trasformato dai filtri del fotoritocco.

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La frazione di secondo di uno sguardo fa sentire viva la Connie narrata da Oates, ma la rende anche preda di un mostro, confermando un ignobile schema, il cui climax discendente nel baratro dell’ovvio è racchiuso dalla frase: “come eri vestita?”. Alla fine, il corpo resiste. Si ribella alla griglia della moda, alle taglie che pretendono di normalizzarlo.

Ogni abito, con le sue cuciture, è una contraddizione vivente: una gabbia e una possibilità, un limite e una promessa. Gli abiti non misurano, non giudicano: vivono nelle pieghe delle storie che li attraversano. Sono specchi di chi li sceglie, strumenti di espressione o di difesa, tracce di un’identità che sfugge alle regole della bellezza universale.

Storie che nessuna misura potrà mai contenere.



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