L’Italia del 1960 tra il congresso del Msi a Genova e il governo Tambroni

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Un titolo di un giornale del 1960 sul congresso annullato dal Msi

Orientarsi nelle dinamiche riguardanti la formazione e la repentina caduta del governo Tambroni, inquadrarle nelle logiche della guerra fredda e focalizzarsi sul peso assunto nella vicenda dai principali protagonisti della vita politica nazionale è obiettivo arduo.

Spunti interessanti si alternano ad aspetti controversi nel volume collettaneo “Luglio 1960. Le tensioni del cambiamento”, curato da Franco Amatori e Guido Melis per la casa editrice Rubbettino e pubblicato nel 2023.

Il volume collettaneo “Luglio 1960. Le tensioni del cambiamento”, curato da Franco Amatori e Guido Melis, per Rubbettino

Le prolisse ricostruzioni degli anni del “miracolo economico”, delle profonde trasformazioni del tessuto sociale e produttivo e degli squilibri esistenti nei rapporti di forza tra ceto imprenditoriale e organizzazioni sindacali preludono all’ingresso sulla scena di giovani operai e studenti (le “magliette a strisce”), in un contesto contrassegnato dalla rifioritura dell’antifascismo inteso come catalizzatore delle battaglie ideali per la libertà.   

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Sotto un profilo più pragmatico, l’analisi degli eventi forieri di una crisi di sistema parte da lontano.

Da principio i detrattori di Tambroni si soffermano su un temperamento votato a pratiche clientelari e sulle fortune di una carriera costruita all’ombra della corrente fanfaniana di “Iniziativa democratica” prima e di Gronchi e Segni poi. Se il diretto interessato è addirittura apostrofato in un passaggio come “un virus che covava nel centrismo degasperiano”, la sua parabola ascendente conobbe due snodi cruciali quando assunse la guida dei Ministeri della Marina mercantile e degli Interni.

Il suo attivismo culminò da un lato nella riforma della cantieristica e nella volontà d’introdurre la “libera scelta” della manodopera, cioè la possibilità per armatori e spedizionieri di relazionarsi con la forza lavoro evitando l’intermediazione delle compagnie; dall’altro nell’istituzione di strutture informative d’investigazione parallele a quelle ufficiali, impiegate nella schedatura di politici, sindacalisti, giornalisti, imprenditori e membri del mondo ecclesiastico.

La complicata gestazione di un esecutivo poggiante su un equilibrio effimero, non contestato nell’immediato e neppure inedito (in precedenza Adone Zoli ebbe una maggioranza simile) certificò una spaccatura interna alla Democrazia Cristiana tra coloro i quali volevano impedire un’apertura ai socialisti e chi, invece, si adoperava attivamente in quella direzione.

Nelle intenzioni di Gronchi l’incarico a Tambroni era teoricamente orientato a sinistra: fallì alla Camera a seguito delle dimissioni di tre Ministri, in segno di protesta per una fiducia ottenuta grazie ai voti determinanti di missini e monarchici. Dopo l’intermezzo dell’incarico a Fanfani, il politico marchigiano completò l’iter al Senato e pose fine a un’atipica crisi extra-parlamentare, fino a quando la direzione del partito gli garantì il proprio sostegno.

I luoghi del conflitto

Il focus sulle singole realtà locali rispecchia un quadro frastagliato e giudizi non univoci. In vari centri acquisirono un peso rilevante le Camere del Lavoro e i “Consigli federativi della Resistenza”, questi ultimi sorti a coordinamento di comitati e associazioni. Manifestazioni e scioperi sfociarono spesso in scontri violenti tra dimostranti e forze dell’ordine, concludendosi in alcuni casi con bilanci tragici.

Dopo il 1950 a Genova i missini erano riusciti – secondo l’intellettuale di destra Giano Accame – a ritagliarsi uno spazio di agibilità che intendevano consolidare. L’indizione del Congresso del partito  nel capoluogo ligure suscitò però un’avversione diffusa in gran parte della stampa e dell’opinione pubblica; contribuì ad esacerbare gli animi la notizia, non documentata e plausibilmente falsa, che il suo presidente onorario sarebbe stato Carlo Emanuele Basile, già prefetto durante la Repubblica Sociale Italiana.

A Reggio-Emilia la scintilla fu l’emanazione di una circolare ministeriale che stabilì la possibilità di temporanee limitazioni delle proteste (nell’occasione della ricorrenza del 25 aprile i disordini si erano trasformati in un sit-in contro Tambroni) in condizioni eccezionali di pericolo per la sicurezza pubblica. Le vicende processuali a carico dei due rappresentanti delle forze dell’ordine imputati per la morte di cinque operai si conclusero con sentenze di assoluzione e fungono nella narrazione da pretesto per sollevare dubbi sull’indipendenza della Magistratura.

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Nel caso siciliano i sentimenti di frustrazione conseguenti alla fine dell’esperimento autonomista di Silvio Milazzo si mescolarono a questioni economico-sindacali e a istanze campanilistiche: cittadini dei quartieri più popolari, in gran parte estranei alle organizzazioni di sinistra, parteciparono a sommosse non di rado degenerate in eccessi vandalici e nelle contestazioni riservate ai comunisti che, come ammesso parecchi anni dopo da Pio La Torre, non riuscirono a indirizzare gli eventi.

Il memoriale di Moro e le posizioni dei partiti

I giudizi di Moro contenuti nel memoriale insistono sulla gravità del collasso istituzionale del 1960.

L’appoggio decisivo del MSI rese l’esecutivo un bersaglio facile per la sinistra, rinvigorita da un movimento in larga parte spontaneo che aprì inaspettati spazi di penetrazione nell’opinione pubblica. Derivò da qui l’importanza per il politico pugliese, indicato da taluni come il vero regista della soluzione dell’impasse, di far cadere Tambroni in una cornice all’interno della quale la rottura dei legami con il PCI costituiva la premessa necessaria per il coinvolgimento dei socialisti nell’area di governo.

Il partito di Togliatti giudicò l’attribuzione dell’incarico all’esponente dello scudo-crociato un espediente per prendere tempo, per poi concentrare sull’avversario le accuse del rischio di un’involuzione autoritaria. E’ significativo che la novità non destò all’istante motivo di allarme e che vari osservatori hanno individuato un pericolo non nel neofascismo, bensì nelle tendenze conservatrici della forza di maggioranza relativa e di vasti settori della società italiana.

La proposta di una tregua di quindici giorni, avanzata dal Presidente del Senato Merzagora all’indomani degli accadimenti di Reggio Emilia, venne perciò valutata positivamente dai comunisti i quali, lungi dall’ordire i moti, ne furono al contrario colti impreparati; al tempo stesso essi approfittarono in una certa misura del malcontento collegandolo alla retorica dei valori, dei sentimenti e degli ideali dell’unità antifascista.

I socialisti risentirono degli eventi più di altre formazioni: lotte intestine nelle federazioni e nelle sezioni accentuarono le differenze tra la sinistra e gli autonomisti desiderosi di smarcarsi dal PCI. Con riferimento alle tensioni di Genova, prevalse all’inizio la chiave di lettura di un mero caso circoscritto: anche nel pieno dell’atmosfera emergenziale, i vertici non percepirono un cambiamento profondo in atto. L’evocazione della Resistenza, che raggiunse uno dei punti più celebrati con l’infuocato comizio di piazza di Sandro Pertini, mascherò solo in parte problemi oggettivi, a partire dall’accresciuta difficoltà di spiegare alla base l’avvicinamento agli stessi “clerico-fascisti” continuamente bersagliati dalla propaganda.

Per quanto riguarda gli ambienti liberali, i contributi si focalizzano inizialmente sugli atti del convegno “Verso il regime” organizzato nel 1959 da “Il Mondo”. La rivista di Mario Pannunzio sostenne una tesi a tinte fosche, imperniata sulla dicotomia tra democrazia e reazione e sul predominio di forze intramontabili: preti, grandi industriali e alta burocrazia. In tale ottica i democristiani, sottoposti al ricatto di un’ala destra che “sognava uno Stato di polizia”, funsero da ago della bilancia.

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Le riflessioni di Merzagora si concentrarono sui rapporti distorti fra organi costituzionali, sulla conseguente necessità di difenderne le prerogative e su quella di scongiurare il rischio dell’apertura a sinistra. Il ritiro da parte dei liberali della fiducia al secondo governo Segni, che nel febbraio 1960 si era dimesso eludendo il dibattito parlamentare, lo indusse a denunciare lo svuotamento delle Camere, mentre “Il Mondo” lo accusò di invadere il campo del Presidente della Repubblica.

Nell’opinione del segretario Malagodi, invece, la netta ostilità all’inclusione dei missini nell’area della maggioranza e la potenziale apertura ai monarchici dovevano essere propedeutici alla salvaguardia del centrismo: accettò così in parte la proposta di tregua, ma non il tentativo di equiparare la condotta della forza pubblica a quella della piazza.

Lo spostamento finale di prospettiva sulle tematiche connesse alle minacce (reali o presunte) che minarono l’unità politica dei cattolici e sulla strategia d’inserimento degli ex fascisti merita  particolare attenzione.

L’interessante approfondimento di Giuseppe Parlato sottolinea, infatti, che a Genova la giunta comunale democristiana si era dimessa dopo la defezione del Movimento Sociale Italiano, a seguito di un accordo tra il segretario Arturo Michelini, Luigi Gedda (Presidente dell’Azione cattolica e già animatore dei comitati civici) e il cardinale Giuseppe Siri, presidente della Conferenza Episcopale Italiana e arcivescovo della città.

I contatti tra il partito della Fiamma, i moderati e i conservatori d’ispirazione cristiana e il ruolo svolto anche da Gianni Baget Bozzo (dalle colonne della rivista “Ordine civile”) in senso anti-laicista, per una critica della partitocrazia e per una contrapposizione al comunismo costituiscono le principali componenti di una tesi secondo la quale Michelini avrebbe accettato di divenire parte integrante di un secondo partito cattolico, oppure di un “movimento nazionale” in seno al quale egli sarebbe stato potenzialmente disposto a sciogliere la propria compagine.

Tale ipotesi ha stimolato un dibattito con chi ritiene, invece, che il MSI fosse in realtà impegnato a conquistare visibilità come strenuo difensore della legge e dell’ordine e che il mancato svolgimento del Congresso, accompagnato dalle recriminazioni per un “disegno eversivo” che impedì lo svolgimento di un evento democratico di una forza rappresentata in Parlamento, influì sul successivo arretramento della destra.

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Frutto di un apprezzabile sforzo che tiene conto di prospettive differenti, il lavoro si colloca prevalentemente dalla parte degli studiosi che, caricando di significati forse eccessivi le drammatiche giornate del giugno-luglio 1960, hanno attribuito grande risalto al ruolo di un movimento plurale e composito, che agì soprattutto su impulso della partecipazione giovanile e beneficiò talvolta di giustificazioni aprioristiche, radicate in ambienti interessati a perorarne la causa nel nome dell’insurrezione legale.

Andrea Scarano

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