L’analisi/ Il debito dei Paesi poveri che ci riguarda tutti

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Nel Giubileo della “speranza che non delude” non potevano mancare l’allarme per il livello del debito dei Paesi poveri e l’invocazione di Papa Francesco – anche in previsione della Giornata mondiale della pace del prossimo primo gennaio – per il suo condono, in conformità con la preghiera per la remissione dei debiti, non solo quelli economici. L’esposizione dei Paesi in via di sviluppo, secondo alcune stime, comporta un servizio del debito per gli interessi di circa 850 miliardi di dollari, mentre il debito pubblico globale supererebbe i 90 mila miliardi di dollari. Non sono pochi i Paesi  che sono tenuti al pagamento di interessi ben superiori alle risorse destinate a funzioni essenziali come sanità e scuola. Le spese per la sicurezza, in diversi casi, finiscono con l’assorbire una quota rilevante del Pil; in qualche Stato, addirittura fino al 30 per cento. La politica economica viene così completamente distorta e sono colpiti innanzitutto i più poveri tra i poveri. In queste condizioni è improbo parlare di crescita e di sviluppo: la pesantissima palla al piede del debito blocca tutto e le conseguenze si vedono anche a livello internazionale e, dunque, nei rapporti con gli stessi Paesi creditori: insomma, in primis in campo economico, il debito finisce con l’essere un problema non solo dei Paesi poveri.
   

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In occasione del Giubileo del Duemila, papa Giovanni Paolo II promosse iniziative per il condono del debito dei Paesi in questione. Il Parlamento italiano approvò una legge che autorizzava l’Italia a partecipare a progetti multilaterali per una sanatoria del loro debito. Si svilupparono iniziative culturali al riguardo e cominciò a farsi strada, anche ad opera di prestigiose istituzioni, l’esigenza di promuovere un nuovo ordine economico e monetario internazionale. Un G20 arrivò a ravvisare la necessità di un ri-concepimento dello stesso diritto internazionale; intanto, si affermava l’esigenza di porre mano, per l’economia e la finanza, a nuovi “global legal standard”, nuove norme e nuovi controlli in sede globale. Lo stesso ruolo delle principali istituzioni finanziarie globali veniva fatto oggetto di proposte di revisione, a cominciare dal Fondo monetario internazionale del quale alcuni esperti sostenevano la necessità di un’evoluzione verso la configurazione di un organismo preposto alla liquidità internazionale, mentre la Banca mondiale avrebbe dovuto ancor più concentrarsi nel sostegno dei Paesi poveri. Abbondavano i richiami della storica riunione di Bretton Woods, di quel che allora, alla fine della seconda guerra mondiale, non si fu in grado di realizzare, come avrebbe voluto il maggiore economista del Novecento, J.Maynard Keynes, l’istituzione cioè di una moneta mondiale – il “bancor” – e di una altrettanto mondiale Banca centrale. L’attentato terroristico alle Torri gemelle riorientò le riflessioni e le proposte e, alla fin fine, il debito dei paesi Poveri, tra le successive crisi dei ” subprime”, poi delle banche, quindi dei debiti pubblici dei Paesi sviluppati, passò in secondo piano.
   

Ora, mentre le guerre in corso, i problemi delle migrazioni e le altre crisi geopolitiche, nonché gli stessi processi della transizione ecologica e digitale, presentano un contesto arduo, il pagamento del debito dei Paesi in via di sviluppo ne accresce le difficoltà e li espone ancor più a conflitti e a ingerenze di altri Paesi. Può diventare, questa situazione, l’innesco di problemi più acuti, a cominciare dall’intensificazione delle migrazioni. Occorrerebbe un piano globale per il debito. Ci concentriamo giustamente sul debito dei Paesi dell’Unione e chiediamo il ricorso a forme di debito comuni per promuovere investimenti e crescita nell’area, ma non possiamo affatto trascurare il debito dei Paesi poveri, anche perché, pur a livello globale, varrebbe l’Apologo di Menenio Agrippa: un corpo ha un futuro solo se lo si basa sulla collaborazione di tutte le membra.  Un freno al multilateralismo sarebbe deleterio. Non bisogna dimenticare la Populorum progressio che affermava essere lo sviluppo il nuovo nome della pace: un’affermazione che a oggi conserva intatta la sua validità.

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