Destino di povertà collettiva e identità sociale

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La menzogna è, d’altra parte, un elemento imprescindibile della politica. Vi campeggia facendo scempio di ogni pudore e misura, nella certezza idiota di poter dominare persino quelle menti che, per pietà, “fanno finta” di farsi abbindolare dalle dichiarazioni palesemente ipocrite ovvero autoreferenziali (presunti titoli o presunte imprese eroiche solidali) generatrici di deprimenti casi (patologici) di “obscurum per obscurius” e mirabilia. La cosa in sé non meriterebbe altro che commiserazione se non fosse inquietante per il suo sedimentarsi e consolidarsi di ripetizione in ripetizione oralarizzata nei peana quotidiani. In spregio a chi fatica per vivere, maturare meriti, prendersi cura degli altri, impegnarsi per rendersi umano, la politica lavora per fornire, con il racconto delle proprie gesta, illusioni polifoniche talvolta semplicemente per arricchire un personale totalizzatore di medaglieri.

Ma a chi si parla? Sicuramente a un uditorio popolato dalla propria banda di adepti. Non se ne parla al corpo sociale, ossia il popolo, quello vero. Il popolo, quello vero va a votare sempre meno e si interessa sempre meno al cabaret partitico inscenato sui palcoscenici. Il popolo, quello vero, lotta quotidianamente contro il carovita, la mancanza di servizi, le dissennate politiche ambientali, l’erosione della democrazia e molte altre “amenità” urlate da politicanti in apoteosi di totale incompetenza.

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Il corpo sociale, come ha evidenziato il Censis nel 58° Rapporto, tende a restare nella sua bolla, impermeabile alle slabbrature governative; segue sempre una sua logica tra l’oscillare di continuità e cambiamento, di attesa e trasformazione, di cinismo individualista e coesione collettiva.

Gli italiani, come acutamente affermato, galleggiano, nonostante tutto e come sempre. Galleggiare abilmente, tuttavia, non protegge dai vortici.

In un Paese che sente l’affanno del rimettersi in movimento, che rimette in gioco le sue dimensioni intermedie, che depotenzia le spinte imitative, che prova a muovere l’acqua non solo per galleggiare e sopravvivere, ma anche per muoversi su nuove rotte, resta l’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli. È faticoso dare direzione allo sviluppo, immaginare una rotta e seguire una tabella di navigazione.

Fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro.

La politica deve operare in funzione del “dover fare la polis” (principio cardine della democrazia, secondo la civiltà greca) senza fare del paese un’accademia nepotistica più che uno strumento per lavorare e ottenere risultati per il bene comune.

Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici.

Non siamo una società in corsa tuonante per lo sviluppo, quindi, ma nemmeno siamo diventati un popolo di poveri diavoli destinati a rimanere miserabili. La nostra società è molto più meticcia di quanto si dica, avvezza a mescolare valori e significati, persone e comportamenti. Un po’ occidentale e un po’ mediterranea, levantina e mediorientale, contadina e cibernetica, poliglotta e dialettale, mondana e plebea.

In una società chiusa, la crescita o non c’è o è drammaticamente lenta. Lo sviluppo economico, sociale e del benessere personale matura e diviene concreto nelle società capaci di aprirsi al nuovo, di spezzare il recinto, di esplorare nuovi confini, di accogliere nuovi innesti, di correre nuovi pericoli. Quando, viceversa, a ciascun gruppo sociale non sono accessibili reali possibilità di mobilità, avanzamento, promozione individuale, una società resta intrappolata in sé stessa, si ripiega, aspetta.

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Una società aperta porta con sé dei rischi, per le istituzioni collettive e per la vita privata. Con i rischi, porta anche preoccupazioni relative alla perdita di sicurezza, alle limitazioni alla redistribuzione delle rendite, all’ibridazione culturale. Rischi che al momento la nostra società non sembra disponibile ad assumersi, ma che, allo stesso tempo, non può permettersi di non correre, se vuole crescere e non più galleggiare.

Lavoro, rispetto della persona e grandi idealità sono i pilastri dell’Umanità e del futuro di questa nostra società alla ricerca di identità.

Il processo di costruzione dell’identità sociale è possibile solamente con l’impegno di chi ha le abilità per realizzarlo attraverso piani concreti di fattibilità. Con l’eloquenza delle parole, con le invettive sciorinate, con i proclami della politicanza si disperde l’identità valoriale di un Paese. E grava sulla responsabilità collettiva il destino di povertà che sconterà la generazione a venire, condannata a scontare le incapacità e le stolte volontà di chi li ha preceduti, deliberatamente o incoscientemente volti a sostenere che, come affermava Hugo von Hofmannsthal “tutto ciò che è creduto esiste, e soltanto questo”.



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