Voci d speranza dalle missioni in Giordania, Messico, Marocco e Burundi

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Le studentesse della scuola gestita dalle Suore operaie della Santa Casa di Nazareth

Guerre, povertà, violenza. Il nostro tempo è segnato da ingiustizie. Anche per questo l’invito ad essere “pellegrini di speranza” durante l’anno del Giubileo rimbomba con forza. «Potremo esserlo se saremo capaci di recuperare il senso di fraternità universale, se non chiuderemo gli occhi davanti al dramma della povertà dilagante che impedisce a milioni di uomini, donne, giovani e bambini di vivere in maniera degna» ha scritto papa Francesco nella lettera per il Giubileo inviata nel 2022 all’arcivescovo Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione. Un invito per tutte e tutti, ma anche una domanda: nelle situazioni più complesse, la speranza continua ad esistere?

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Lo abbiamo chiesto a quattro missionari che operano in Paesi con sfide particolari: Giordania, Messico, Marocco, Burundi. «Sì, esiste», ci hanno risposto. E ci hanno spiegato il perché.

«In questo momento sentiamo che è particolarmente importante dare ragione proprio della speranza che ci abita, con credibilità» racconta Chiara Giorgio da Madaba, in Giordania, dove vive con altre due religiose della Fraternità della Speranza del Sermig. Animano e gestiscono una casa che accoglie bambini e ragazzi con disabilità, cristiani e musulmani insieme, l’Arsenale dell’Incontro. La Giordania è oggi circondata dai conflitti: «Qui non c’è la guerra ma tante persone che conosciamo sono toccate nel vivo perché hanno parenti coinvolti. Vivere la speranza con loro non significa dire che non ci sono problemi, ma far vedere che una realtà diversa è possibile – spiega Chiara – proviamo a farlo con azioni quotidiane come continuare a dare priorità ai piccoli nel nostro servizio, cercare di non lasciare indietro nessuno e credere che alla fatica si risponde con una maggiore responsabilità, non con la violenza». In Giordania, i cristiani sono il 2% della popolazione. Il Natale è però festa ufficiale e diventa un momento di dialogo e scambio tra persone di religioni diverse e con le autorità civili, un ulteriore motivo di speranza che si lega a questo periodo particolare. «Natale per noi è vedere un Dio che continua a nascere e rinascere, non ci molla mai. Proprio lì dove è più difficile, lui si fa presente».

La stessa certezza accompagna Kathia di Serio, suora comboniana che vive a Città del Messico. «Anche quest’anno Dio viene a piantare la sua tenda in mezzo a noi» dice, al telefono. L’immagine della tenda non è casuale: suor Kathia lavora con le centinaia di persone migranti che vivono per strada, accampate, in attesa di sapere se potranno entrare negli Stati Uniti. Tante donne, tanti bambini. «Stiamo provando a coinvolgerli in una tradizione natalizia molto viva tra i messicani in queste settimane di festa, la posada. Le persone girano a gruppetti per le strade chiedendo ospitalità alle case e facendo memoria del viaggio di Maria e Giuseppe. Alcune famiglie le accolgono e si passano insieme alcune ore, con canti, balli, condivisione di cibo. È un momento di fraternità – spiega suor Kathia – . Ci si sente un unico popolo in cammino verso un Dio che continua a credere nella nostra umanità».

Uno degli accampamenti delle persone migranti a Città del Messico – Avvenire, Chiara Vitali

Vivere la speranza tra le persone migranti è la quotidianità anche di padre Patrick Mandondo, missionario della Consolata, di origini congolesi e che opera a Oujda, città in Marocco vicina al confine con l’Algeria, con altri due padri missionari. «Abbiamo un’accoglienza d’urgenza, un ambulatorio, corsi di alfabetizzazione e professionali – spiega – non è facile, non abbiamo finanziamenti da grandi strutture, viviamo con l’aiuto della gente. Le persone migranti spesso arrivano con problemi e ferite, così la nostra Chiesa si è trasformata in un ospedale da campo, come dice il Papa». Proprio nella loro chiesa si è festeggiato un Natale fatto di canti e balli. «Ci sono sempre tanti ragazzi che lo animano – dice ridendo padre Mandondo – qui siamo una netta minoranza, il Natale non è una festa ufficiale e possiamo celebrare solo all’interno dei nostri spazi. Di solito invitiamo anche alcuni amici musulmani semplicemente per stare insieme, senza che mai si dica all’altro “tu devi essere come me”. Questo spinge alla comprensione, al rispetto ed è speranza».

Stesso continente africano, ma migliaia di chilometri più a Sud-Est, a raccontare l’essere “pellegrini di speranza” è anche suor Erika Guaragni, delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth. Vive nella provincia di Gitega, in Burundi, con altre consacrate della sua congregazione. Insieme gestiscono una scuola professionalizzante con corsi di cucito e alberghieri. «Questo Paese è uno dei più poveri al mondo, l’inflazione ora è altissima ed è quasi impossibile trovare carburante. Le persone e le merci non riescono a muoversi, i prezzi sono alle stelle». Dove si trova la speranza? «Nei più giovani – risponde decisa suor Erika –. Qui sono tantissimi, l’età media è di 17 anni. Hanno una forza interiore in più, grande desiderio di vita e voglia di cercare la giustizia. Spesso fanno scelte coraggiose senza avere grandi mezzi a disposizione e con una grande fede, io imparo da loro». Poco lontano da suor Erika, c’è una sala dove i ragazzi stanno facendo prove per le celebrazioni di questo periodo natalizio. «La Messa di Natale è stata partecipatissima, c’erano bambini dappertutto. La gente ha cantato, danzato e nonostante le tante difficoltà ha celebrato la vita che non si ferma».

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Una Messa a Gitega, Burundi – Erika Guaragni



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