Con il libro Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon, il gruppo di ricerca Into The Black Box ci fornisce uno strumento utile per analizzare quello che definiscono l’Amazon Capitalism. Spesso i lavori sull’azienda di Jeff Bezos si sono concentrati su particolari rami di Amazon, in particolare il suo sito di e-commerce e i relativi magazzini ma in questo modo perdiamo di vista la sua rapida espansione in innumerevoli settori economici. Infatti Amazon è saldamente presente nel settore dell’intrattenimento tramite Prime Video e Twitch, produce prodotti tecnologici diffusi in molte delle nostre abitazioni come Alexa ed è una delle principali aziende fornitrici di servizi informatici tramite Amazon Web Services. Inoltre Bezos negli ultimi anni ha fatto investimenti anche nel settore dell’editoria acquistando il “Washington Post” e investe nell’industria aerospaziale tramite Blue Origin. Amazon, quindi, è talmente presente nelle nostre vite da aver travalicato la sfera puramente economica finendo per condizionare anche quella sociale e politica.
Da qui deriva il concetto di Amazon Capitalism che i ricercatori di Into The Black Box intendono indagare per la capacità di Amazon e società simili, pensiamo a MercadoLibre in America Latina e Alibaba in Cina, di condizionare lo sviluppo del capitalismo.
Per questo motivo si parla di amazonizzazione della società. Una simili tesi viene supportata offrendo al lettore ben tre ipotesi.
Amazonizzazione della società
La prima sostiene che le aziende come Amazon sono in grado di svolgere la funzione di punto di sintesi delle operazioni del capitale di cui parlano Sandro Mezzadra e Brett Neilson in un loro recente libro. Questi concetti sono molto utili per capire come funziona oggi il capitalismo perché dimostrano come la teoria critica contemporanea si stia focalizzando sulla molteplicità dei processi di valorizzazione nell’economia capitalista. Anche in passato il capitalismo ha sfruttato a proprio vantaggio la diversità presente nei processi produttivi capitalistici, pensiamo al lavoro razzializzato e schiavile nelle piantagioni oppure al lavoro di cura domestico sessualizzato. La differenza con il passato è la scomparsa della fabbrica come perno attorno cui ruotavano le operazioni di assemblaggio delle diverse stratificazioni soggettive ed oggettive. La domanda che si pone il gruppo di Into The Black Box è: oggi chi svolge questo ruolo? Quali imprese sono capaci di gestire ed espandere le diverse operazioni del capitale? Rispetto a queste domande possiamo notare come Amazon sia capace di tenere insieme logistica, produzione, estrazione dei dati, capitale industriale, capitale finanziario, sfruttamento del lavoro, magazzini, data center, corrieri e crowdworker articolandoli su piani diversi che vanno dal metaverso allo spazio. Tutto ciò significa che il miglioramento dell’efficienza di un segmento produttivo dell’azienda comporta l’espansione di altri segmenti e contemporaneamente Amazon si dimostra capace di articolare da sola la molteplicità di forme del capitalismo contemporaneo, diventando un punto di osservazione imprescindibile per indagare le diverse operazioni del capitalismo.
La seconda ipotesi riguarda l’amazonizzazione della società tramite il trasferimento su larga scala di processi che si sviluppano dentro queste imprese. Questo processo ha subito una forte accelerazione con la pandemia del COVID-19 che ha favorito la digitalizzazione di molte della nostre attività a causa del lockdown di cui hanno approfittato imprese come Amazon. I loro principi organizzativi, come big data, management algoritmico o esternalizzazione della forza lavoro, sono diventati le linee guida per la riorganizzazione dei processi di produzione e distribuzione su scala globale. Questi processi, tuttavia, in questo momento si stanno scontrando con la disarticolazione e riorganizzazione delle catene globali del valore a opera della guerra in una fase storica contraddistinta anche da un’alta inflazione e dal rialzo dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. Di conseguenza c’è stata una riduzione dei salari e logicamente dei consumi che si abbina a una minore predisposizione dei venture capital a investire nelle tecnologie digitale. In questo modo sono state generate le premesse per la creazione di un clima competitivo da cui potranno emergere solamente poche aziende, rafforzando le tendenze verso il monopolio nel settore e spingendo gli Stati, impegnati in una lotta per la conquista di aree di influenza, a sottoscrivere accordi con queste imprese.
La terza ipotesi riguarda la forma impresa di Amazon.
Non possiamo pensare a questa azienda solo in termini organizzativi e manageriali perché non siamo davanti a un semplice attore economico bensì a un costruttore di ecosistemi capaci di erodere il mercato stesso.
Amazon è ormai capace di penetrare nelle relazioni sociali e di influenzare forme e modi del vivere comune assumendo la forma di un dispositivo di governo che plasma e indirizza le condotte individuali e collettive, esercitando di fatto un potere politico, rafforzato dalla costante accumulazione ed elaborazione di dati su vasta scala. Un’altra caratteristica analizzata da Into The Black Box è la tendenza di Amazon a superare la distinzione dicotomica tra infrastruttura reale e infrastruttura virtuale. Questo superamento non significa che non esistono più differenze tra un ponte e una piattaforma online. Si parla, piuttosto, di infrastrutture con carattere ibrido grazie a un intreccio tra analogico e digitale che fa affidamento sulla politica, sull’economia e in generale sulla società. In Amazon tutto ciò si traduce nell’esistenza di un’infrastrutturale materiale che serve il digitale.
AWS, Amazon Web Service: la miniera d’oro di Amazon
Il suo marketplace o il suo essere un agente logistico che consegna merci non sarebbe possibile senza i servizi di Amazon Web Service (AWS). AWS è la miniera d’oro di Amazon. Si tratta di una piattaforma di cloud computing e cloud storage che, assieme ad altre quattro compagnie del pianeta, ovvero Microsoft Azure, Google Cloud Platform e Alibaba, controlla l’infrastruttura digitale capace di offrire il 71% dell’offerta globale di servizi cloud. AWS è la prima azienda in ordine cronologico di questo tipo ma sopratutto è il più grande ecosistema cloud mai esistito. Amazon offre connessione capaci di mettere in contatto i continenti di tutto il pianeta tramite i suoi vettori, chiamati zone e regioni, che hanno finito per determinare la tipologia specifica di tutte le principali infrastrutture create successivamente. Quindi una simile impresa assume una centralità da non sottovalutare in un’economia basata sulla gestione e la conservazione dei dati. Il 60% dei dati messi in rete in tutto il mondo risiede nei cloud che hanno anche delle articolazioni materiali fatte di architetture e sistemi fisici estremamente protetti, anche con l’uso della forza militare. Il servizio offerto da AWS è strutturato in regioni che si compongono di cluster contenenti data center posizionati a una distanza non superiore ai 100 Km. I data center che compongono la regione si chiamano zone di disponibilità. Tutto ciò è funzionale alla creazione di una rete di zone che permette ad Amazon di offrire flessibilità, sicurezza e scalabilità ai clienti intenzionati a eseguire applicazioni e database su cloud computing. Le zone consentono il riparto di applicazioni su più architetture per poter rispondere efficacemente a eventuali problemi elettrici, geologici e ambientali che possono danneggiare i sistemi. Ogni regioni, inoltre, possiede un’autonoma capacità di alimentazione, raffreddamento e sicurezza fisica. L’offerta di più zone di elaborazione e stoccaggio di dati è supportata da una distribuzione che sfrutta a proprio vantaggio una certa tolleranza ai guasti e in questo modo viene garantita un’architettura a reti ridondanti e latenza minima, autosufficienti e sempre connesse. Questa strategia distributiva ha fatto da modello di riferimento per tutte le altre imprese concorrenti ed è stata approvata dalla certificazione più sviluppata nell’ambito della sicurezza sullo stoccaggio e la gestione dati, ovvero la Tier4. Un altro punto di forza di AWS è la proprietà delle reti a invarianza di scala, cioè distribuzioni con nodi capaci di crescere tramite la capacità di rispondere a tante tipologie di attacco che possono prendere la forma di tentativi di hackeraggio oppure di scioperi. Questo modello viene replicato anche nell’organizzazione dei magazzini.
Un’altra tipologia di archivio e gestione dei dati è la zona locale. Si tratta di un nuovo ordine di infrastruttura che fornisce servizi specifici a partire dalla distanza dall’utente o dalle strutture fisiche del cliente. Siamo davanti ad architetture on premise. Le zone locali si trovano in prossimità dell’utente finale e riescono a gestire carichi di lavoro molto sensibili alla latenza. Pensiamo solamente a tutti quei settori protetti da una conformità rigida di posizione fisica dei dati come la sanità o i servizi finanziari e governativi.
Grazie a tutti questi punti di forza AWS è riuscito a penetrare nell’economia, nella società e nelle istituzioni.
Riesce a gestire i carichi di lavoro di imprese molto diverse tra loro come Siemens, Volkswagen, Netflix, Nasa o addirittura il Ministero dell’Interno francese. In Italia AWS ha partnership con imprese private, come Ferrari, Enel, Musixmatch, e anche pubbliche come il CNR, il Dipartimento della Protezione Civile, comuni come quello di Torino, il laboratorio che si occupa di sequenziamento del genoma umano DanteLabs e la Corte dei Conti. AWS tocca anche l’istruzione e infatti alcune università, come il Politecnico di Torino o di Milano, utilizzano i suoi servizi per la digitalizzazione delle banche dati della ricerca e si è, tramite Zoom a cui fornisce l’infrastruttura, inserito nel business della didattica a distanza. Nella scuola primaria e secondaria, invece, AWS, tramite le collaborazioni con Argo Software e Madisoft, partecipa al funzionamento, con il Software Nuvola, dei registri elettronici. Tutte queste informazioni messe sul tavolo ci parlano di un’azienda privata che tramite la creazione di un paesaggio fatto di connessioni, archivi e monitoraggio finisce per colonizzare la vita privata di milioni di persone. Amazon, infatti, si occupa di consegnare merci a domicilio ma anche di conservare i dati sul genoma degli esseri umani.
La crescita di Amazon
Una simile situazione solleva una serie di domande a cui dobbiamo urgentemente dare delle risposte: come possiamo creare degli strumenti di controllo e limitazioni per arginare Amazon? Sono sufficienti le attuali legislazioni nazionali e internazionali? Come possiamo salvaguardare interessi e diritti pubblici quando ci dobbiamo confrontare con architetture che vogliono diventare assolute? Quest’ultimo termine non è un’esagerazione perché Into The Black Box sostiene che l’obiettivo di Amazon non è essere solo capitale ma diventare capitale complessivo totale attraverso il tentativo di fasi società tout court. Questa tesi è supportata dalla costruzione da parte di Amazon di un suo ecosistema espanso e gerarchico che nella sua crescita verso altri settori economici finisce per inglobare altre realtà capitalistiche oppure ne crea direttamente delle nuove. Questa enorme piattaforma, ovviamente, non può fare a meno del lavoro per andare avanti. In vent’anni Amazon ha moltiplicato tanto la sua capitalizzazione di mercato quanto il numero dei suoi lavoratori. Nel 2001 l’azienda in borsa raggiungeva i 4 miliardi dollari mentre nel 2021 ha toccato quota 1680 miliardi di dollari. Nell’agosto del 2022 Amazon era la quinta impresa più grande al mondo con una capitalizzazione complessiva di 1.430 miliardi di dollari. Il reddito netto, generato in gran parte da AWS, è aumentato dell’84% tra il 2019 e il 2020, passando da 11.588 miliardi a 21.331. Solamente tra il 2020 e il 2021, anche a causa della pandemia, è aumentato del 56% arrivando a quota 33.364 miliardi. Per quanto riguarda la forza lavoro, si passa da 17.000 dipendenti nel 2007 a 1.600.000 lavoratori nel 2021 con aumenti significativi durante la pandemia. Infatti tra il 2019 e il 2020 la forza lavoro di Amazon aumenta del 62% passando da 800.000 a 1.300.000 unità. Si tratta, in ogni caso, di numeri sottostimati perché non tengono conto dei lavoratori a tempo determinato e dei lavoratori indiretti impiegati nelle aziende legate ad Amazon. Dal punto di vista dei dipendenti complessivi Amazon era la quinta azienda a livello mondiale nel 2020. La maggior parte dei suoi lavoratori si trova negli USA, 1 milione nel 2021, ma l’espansione della forza lavoro di Amazon coinvolge anche altri paesi tra cui l’Italia. Circa dieci anni fa Amazon apriva il suo primo magazzino nel nostro paese, a Castel San Giovanni, vicino Piacenza con i suoi 150 lavoratori, mentre oggi l’impresa impiega 14.000 lavoratori a tempo indeterminato in oltre 50 siti.
Nel decennio 2011-2020 Amazon diventa l’azienda privata ad aver assunto di più in Italia con i suoi 24 lavoratori a tempo indeterminato alla settimana con picchi durante la pandemia. Nel solo 2021 ha assunto 4.500 persone e in tre anni ha raddoppiato i suoi lavoratori a tempo indeterminato.
Il lavoro e la produzione in Amazon
A questo punto Into The Black Box si domanda cosa significa lavorare per Amazon. Molti ricercatori hanno visto l’affermazione di questa impresa come un indizio di un presunto ritorno della centralità della fabbrica. Simili tesi rischiano di portare abbondantemente fuori strada perché schiacciano l’intero ecosistema Amazon unicamente sui magazzini ma abbiamo già detto che Amazon non è solamente la logistica e finiamo per dimenticare che intorno ai magazzini ruotano figure lavorative come i driver che si relazionano appena pochi minuti al giorno con il magazzino di cui, però, rappresentano una naturale estensione. La fabbrica, inoltre, non è più al centro dei processi di valorizzazione del capitale e questo centro non è più localizzabile in unico punto perché la centralità si trova nel flusso, nella catena globale del valore di cui la fabbrica o il magazzino è solo un passaggio o un momento. Ovviamente tutto ciò non mette in secondo piano che qualcuno le merci le deve produrre. Quello che viene messo in discussione è che il luogo della produzione sia l’unico luogo cruciale. Il paradigma della fabbrica deve essere ricollocato dentro un contesto produttivo più ampio che ingloba una territorialità estesa e spazi-tempi transnazionali dove si trovano forme plurime del lavoro, pensiamo, nel caso dell’industria tech, a tutta la filiera che parte dall’estrazione delle materie prime e arriva al magazzino di Amazon, e diverse forme di organizzazione del lavoro. Inoltre ci si dimentica un dettaglio non di poco conto, ovvero che Amazon non produce merci.
Dentro i suoi magazzini le merci al massimo vengono spostate al fine di essere spedite al cliente. Sarebbe meglio, quindi, parlare di un servizio prodotto come una merce e questo spiega alcune similitudini con la vecchia fabbrica fordista.
Il lavoro è organizzato su turni come in fabbrica, con schiere di magazzinieri che entrano ed escono dal magazzino come gli operai della vecchia Fiat. All’interno di questi edifici viene applicata una logica “da catena di montaggio” in abbinamento all’utilizzo di nuove tecnologiche che organizzano le attività dei lavoratori in collaborazione con l’intelligenza artificiale. Nei magazzini di Amazon troviamo un monitoraggio estensivo, costante e automatizzato dei movimenti dei lavoratori attraverso il frequente utilizzo da parte dei manager di dispositivi di misurazione della produttività che generano una valutazione algoritmica del lavoro. Tutto ciò produce una prestazione lavorativa priva di margine di autonomia per il lavoratore mentre viene delegata all’azienda la gestione dei turni e degli orari, con pause brevi, turni molto lunghi e un costante innalzamento degli obiettivi di produzione. Un simile scenario smentisce qualsiasi visione a sostegno della scomparsa del lavoro a causa dell’innovazione tecnologica oppure fa piazza pulita delle idee ingenue su un lavoro meno gravoso e più creativo per tutti grazie alle nuove tecnologie. Amazon, come ha ampiamente dimostrato Alessandro Delfanti nei suoi studi sui magazzini di questa azienda, non punta a costruire capannoni interamente automatizzati ma intende fondere tecnologia e lavoro umano per trasformare i lavoratori in robot industriali. Per Into The Black Box il cyborg diventa una realtà quotidiana nel mondo del lavoro che utilizza ampiamente le tecnologie e porta a nuove tecniche di gestione della forza lavoro. Per questo motivo si adottano forme di gamification che rendono i magazzini degli enormi Tetris ad alta velocità fino ad arrivare a lavoratori equipaggiati di armature robotiche che non solo guidano chi lavora ma diventano il loro supervisore.
Il management, invece, viene sempre più sostituito da sorveglianza tramite telecamere a intelligenza artificiale e uso di big data che si fondono con il comando sulla forza lavoro fondato sulle classiche strategie di razzializzazione, precarizzazione e politiche anti-sindacali. Tuttavia per i ricercatori di Into The Black Box Amazon non è un approfondimento della tecnologizzazione lavorativa. Partendo dal fatto che il lavoro umano non è così facilmente distinguibile da quello delle macchine concrete e astratte, questi processi sono letti come l’estensione del lavoro e del corpo nelle architetture dell’intelligenza artificiale e del machine learning. Il corpo del lavoratore non finisce con la pelle perché i device espandono il lavoro in una configurazione tecno-mediatica che esiste solo in relazione. Siamo davanti al divenire-cyborg che investe pratiche economiche, somatiche e politiche ma anche aspetti molto umani come il linguaggio. Pensiamo, partendo dalla tesi della centralità del linguaggio nel lavoro moderno di Marazzi, allo sviluppo da parte di Amazon dell’app Say I, cioè un’applicazione di traduzione vocale che migliora le sue performance grazie alla sua gratuità e ai migliaia di utenti che la utilizzano. Tutto ciò le consente di evolvere e affinarsi e di conseguenza l’intelligenza artificiale che si occupa delle traduzioni diventa più performativa. Il lavoro gratuito di una moltitudine di persone permette ad Amazon di migliorare questo suo strumento in un contesto in cui la figura del lavoro e del consumo tendono a sovrapporsi a danno della prima.
Un altro esempio in tal senso viene da Alexa, un sistema di intelligenza artificiale basato su tecnologia cloud e utilizzato come assistente vocale. Si tratta di un software a cui possiamo accedere tramite smartphone o dispositivi domotici come gli smart speaker Amazon Echo. La loro enorme diffusione nelle nostre case contribuisce a ridurre il parlato a una serie di codici e di conseguenza industrializza la parola sia nel lavoro che nella vita quotidiana. Per Into The Black Box, Alexa porta alla diffusione di un agire tecnicizzato coerente con l’esigenza di chiarezza e brevità del messaggio. In questo modo viene impoverito il linguaggio tramite la sua meccanizzazione accelerata dai sistemi informatici. Questi processi sono anche funzionali alla logica del just in time. La parola, infatti, ha bisogno di tempo ed è eterogenea mentre Amazon ha bisogno di risparmiare tempo e affettare la complessità. La riduzione meccanica del messaggio tramite l’utilizzo di centralini automatici minimizza la parola e il contatto fisico ma in questo modo si apre a una radicale ambivalenza. Da un lato Alexa ci porta in un mondo fatto di ordini e comandi che nel lavoro si traduce in una macchinizzazione dei pezzi di conoscenza del lavoro vivo e in una forza lavoro dalla parola dimidiata e isolata. Dall’altro lato apre a una semplificazione dell’universo socio-tecnico tramite il superamento della dicotomia uomo-tecnica. Questo significa favorire una democratizzazione dell’accesso alle nuove tecnologie.
Quali conflitti in Amazon?
A questo punto occorre tornare alla dinamica antagonista propria dello sviluppo che produce tutto ciò, ovvero il conflitto tra la continua spinta verso l’autonomia del lavoro vivo dal capitale e quella per la sua espropriazione. Questo discorso spinge Into The Black Box a indagare meglio l’economia di piattaforma a partire dal Marx dei Grundrisse. Per il collettivo al suo interno si cela una doppia faccia insita nelle tecnologie che contengono sia una stratificazione di lavoro morto che elementi di general intellect.
Le tecnologie sono sia strumenti di oppressione nel loro uso capitalistico che potenzialmente strumenti di liberazione tramite possibili contro-utilizzi. Dobbiamo domandarci quale potrebbe essere un uso alternativo di una piattaforma come Amazon non orientata al profitto.
Per fare una simile operazione occorre andare oltre l’immaginario che crede di poter realizzare simili obiettivi cambiando segno al comando di questi strumenti. In breve, non basta impadronirsi degli strumenti tecnologici diventandone controllori e non controllati per trasformare il capitalismo delle piattaforme in tecnologie di liberazione. Approfondendo il tema, per Into The Black Box occorre rinunciare all’idea di un soggetto che controlla lo strumento perché il rapporto con l’oggetto tecnico non si svolge più secondo le modalità del mondo industriale e si va definendo come un’ecologia complessa e stratificata. Il nostro sforzo deve essere orientato a imparare a conoscere la macchina nella sua realtà reticolare senza pensarsi come il possibile padrone delle macchine ma come co-agenti di un mondo che co-evolve. Questo discorso non esclude la necessità di organizzare i cyber workers per creare agglomerazioni di contro-forza per incidere sui processi. Quello che per il collettivo occorre fare è approfondire un movimento in cui il farsi-potere del lavoro vivo è capace di muoversi su un continuum tra riappropriazione e abolizione strutturale di un modo di vivere e produrre. Amazon è un modello di sovrapproduzione di merci e oggetti che finisce per sottrarre risorse da destinare alla riproduzione sociale e per questo motivo va combattuto ma senza rinunciare all’elemento di abbondanza di Amazon che deve però essere tolto alla prospettiva di una crescita infinita orientata al profitto per essere integrato dentro un’economia non più basata sulla scarsità ma sull’abbondanza.
L’analisi dell’Amazon Capitalism non può essere completa senza parlare di come cambia la soggettività dei lavoratori. L’ipotesi di Into The Black Box è che oggi si debba parlare di soggettività circolante quando ci si relaziona alla forza lavoro di Amazon. L’idea rimanda alla continua circolazione dei soggetti e del lavoro. Si tratta di una risposta all’esistenza di una working class mobile, distribuita e che vive in simbiosi con una forte dimensione tecnologica. Inoltre il concetto serve a complessificare l’idea di circulation struggles di Joshua Clover. Queste lotte si riferiscono al blocco metropolitano o delle infrastrutture promossi da movimenti come Black Lives Matter o i No TAV, ma andrebbero estese anche al settore della logistica e alle piattaforme digitali in generale. Si può così identificare una produzione di soggettività in filiera che finisce per intersecare molti aspetti e intrecci dentro la sfera della circolazione definita in senso ampio. L’elemento circolatorio della soggettività va ricondotto anche alle caratteristiche tecniche della composizione di classe contemporanea. Le piattaforme spingono per rafforzare l’aspetto fluttuante della forza, il continuo turnover, l’investimento sul lavoro potenziale a cui possono attingere dai bacini di forza lavoro metropolitani. Per quanto riguarda gli aspetti politici, il cambiamento continuo di lavoro esprime anche un desiderio di flessibilità e autonomia che impone di immaginare una capacità di articolazione continua su più livelli. Non si tratta di trovare il punto centrale ma di interconnettere, estendere e consolidare trame e infrastrutture di conflitto in piattaforme politiche. La soggettività circolante va anche pensata come un vasto insieme di comportamenti soggettivi già in atto. Pensiamo allo spazio di tensione interno all’idea di turnover dove emerge l’interesse del lavoro vivo non a rimanere il più possibile dove lavora ma a circolare in più settori. Qui si aprono ampi spazi per nuove sperimentazioni di lotta in un contesto che deve spingerci sempre di più alla riflessione su quali tipologie di conflitto possono emergere in un regime produttivo dove l’estrazione di dati è la fonte maggiore di accumulazione e, di conseguenza, quali rivendicazioni possiamo portare avanti in un simile scenario.
Immagine di copertina da Wikicommons
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