Trumpiani di oggi e putiniani d’antan sono legati dallo stesso fastidio per l’imperio della legge contro la forza. Gli estremi si toccano. Non sembra vi sia consapevolezza di cosa comporta questa saldatura. Troppo pallida la Commissione europea, troppo deboli i grandi paesi che hanno guidato la costruzione comunitaria, troppo marginali i veri federalisti. E la bestia immonda del nazionalismo ritorna
L’Europa si troverà stretta tra Scilla e Cariddi nei prossimi anni: tra l’autocrate del Cremlino e il golpista del Campidoglio. Due sfide diverse, ma entrambe insidiose e pericolose. O meglio pericolosa la prima e insidiosa la seconda.
Come dice un noto proverbio, dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io. E in effetti sappiamo con chi abbiamo a che a fare a Mosca. Un leader politico spregiudicato capace di ogni nefandezza pur di mantenere il proprio potere – si veda, tra i tanti episodi, come ha liquidato l’affare Prigozhin: un aereo caduto della nebbia, che a noi ricorda tanto il campo di Bascapè dove precipitò Enrico Mattei; e poi di riaffermare lo status di grande potenza della Russia.
Forse Donald Trump gli concederà una risoluzione del conflitto che gli permetterà di cantare vittoria. Ma non potrà andare oltre. Per varie ragioni. Intanto, nonostante una certa isteria occidentale, la Russia non fa, né può fare, paura agli europei. Un paese di 140 milioni di persone con un esercito equipaggiato alla bell’e meglio, con differenziali tecnologici di armamenti che spaziano da ferri vecchi ad armi sofisticatissime è destinato a schiantarsi contro 450 milioni di europei che, complessivamente, superano militarmente le dotazioni dei russi.
Nemico alle porte?
Al netto della partecipazione degli Stati Uniti. Le ambizioni imperiali di Vladimir Putin su cui si è tanto speculato poggiano sul vuoto. Chi trema di fronte al pericolo putinano dovrebbe far mente locale a cosa fu l’Urss fino agli anni Ottanta.
Un paese di quasi 300 milioni di abitanti, un esercito convenzionale tra i 4 e 5 milioni, contro il milione e mezzo che i generali russi oggi cercano faticosamente di reclutare tanto da andare a elemosinare dei poveri coreani, un arsenale atomico puntato contro le nostre città che comunque assicurava la Mutual Assured Distruction (MAD).
Eppure, in quel lungo periodo sotto la minaccia sovietica abbiamo vissuto i trenta gloriosi (l’impetuosa crescita economica) e l’espansione del benessere e delle nostre libertà. Questo per dire che un nemico alle porte non impediva di vivere e prosperare, anche tenendolo a bada con qualche carota (commercio, o , su un altro piano, Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e cooperazione in Europa).
In secondo luogo, l’Unione sovietica brandiva una ideologia che prometteva di tutto e di più, e accendeva le speranze di riscatto di tante persone sottoprivilegiate, nonostante fosse un oppio dei popoli, più ancora che degli intellettuali come scriveva Raymond Aron. Alla fine, tutto quel ciarpame è crollato di schianto ma non per questo, per decenni, l’immagine di “liberazione” del comunismo ha attecchito tra tanti, e in ogni dove.
Putiniani d’Italia e non solo
Oggi Putin non dispone più di quel soft power, può proporre soltanto una rimasticatura di visioni retrò: l’ordine, la gerarchia, i valori tradizionali. Noi democratici irridiamo tutto ciò, e ci mancherebbe. Eppure hanno trovato ascolto, a partire dall’esaltazione della democrazia illiberale di Viktor Orbán, fino ad approdare ai nostri lidi.
Abbiamo già dimenticato le magliette con l’immagine del capo del Cremlino indossate fieramente di Matteo Salvini, e il suo proposito di dare ai russi due Mattarella per avere uno come Putin (a mettere a posto le cose).
O gli sproloqui pro Putin di Silvio Berlusconi, osannato dai suoi quando nel 2022 disse che in fondo il dittatore russo faceva bene a mettere ordine in Ucraina e a «sostituire Zelensky con delle persone per bene» (testuale). O l’omaggio a Putin da parte di Giorgia Meloni per la sua ennesima rielezione.
Il vero rischio esistenziale dell’Europa viene dalla ricezione, da parte delle destre radicali e populiste, dell’infezione anti-moderna promossa da Mosca. L’erosione dall’interno del nerbo liberal-democratico dell’Europa, del suo ancoraggio all’Illuminismo, è ben più pericolosa dei carri armati russi, nemmeno in grado di vincere la resistenza di 35 milioni di (coraggiosi) ucraini.
L’altra insidia
Ma se la forza del nostro continente sta nei suoi valori, allora siamo confrontati da un’altra insidia, ben più sottile ma non meno inquietante. Lo scivolamento degli Stati Uniti verso un sistema politico che nega nella sua essenza i principi sui quali il paese si era fondato.
Che Donald Trump sia rimasto fuori dalla galera, dove qualunque stato europeo l’avrebbe immediatamente rinchiuso dopo l’assalto al Campidoglio, e abbia vinto le elezioni, tra l’altro con l’aiuto del proto-nazista Elon Musk, significa che sono saltate le reti di sicurezza delle istituzioni democratiche. Con la conseguenza che dal neo presidente americano ci si può aspettare di tutto (e l’“acquisto” della Groenlandia è solo l’antipasto). A iniziare da un atteggiamento conflittuale con l’Europa. Dove troverà alleati in quegli stessi che fino all’altro giorno stravedevano per Putin.
Trumpiani di oggi e putiniani d’antan sono legati dallo stesso fastidio per l’imperio della legge contro la forza. Gli estremi si toccano. Non sembra vi sia consapevolezza di cosa comporta questa saldatura. Troppo pallida la Commissione europea, troppo deboli i grandi paesi che hanno guidato la costruzione comunitaria, troppo marginali i veri federalisti. E la bestia immonda del nazionalismo ritorna.
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