Carriere separate, Meloni vuole prima la vittoria e poi la tregua

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Le due sentenze su Renzi e Salvini, piovute una dopo l’altra, entrambe tali da chiudere le rispettive vicende giudiziarie in base all’insussistenza delle accuse ma entrambe arrivate dopo anni di attesa, hanno sicuramente inflitto un ennesimo duro colpo alla credibilità della magistratura inquirente, già in caduta libera. Non è detto che aiutino il referendum sulla separazione delle carriere, che dovrebbe essere ormai certo, però. Proprio la clamorosa e radicale smentita delle tesi dell’accusa da parte dei collegi giudicanti, infatti, offre al fronte nemico della separazione un argomento solido che i 5S e il quotidiano di Marco Travaglio non hanno perso un attimo nel brandire: la separazione non serve dal momento che, come proprio le due sentenze dimostrano, non è affatto vero che la magistratura giudicante fa proprie le tesi di quella inquirente.

A questo elemento si deve aggiungere il dato in base al quale, dopo le riforme Mastella e Cartabia, i passaggi da un’ala all’altra della magistratura si sono effettivamente ridotti all’osso. Certo, il nucleo della riforma è la divisione del Csm in due Consigli ma è lecito dubitare di quanto l’argomento faccia presa immediata sugli elettori e va ricordato che, trattandosi di referendum confermativo e non abrogativo, anche un afflusso minimo alle urne non invaliderebbe la prova, che non richiede quorum. È dunque presumibile che molti degli elettori che voteranno lo faranno in nome di una scelta soprattutto politica ed è probabile che il richiamo molto più forte per l’elettorato d’opposizione, che sarà chiamato a votare non solo sulla riforma ma (lo si può dare per certo) “in difesa della Costituzione e della democrazia”. Insomma, nonostante l’ottimismo del governo non è affatto detto che il referendum sulla separazione sia privo di rischi. E’ anche vero però che la premier ha giocato d’astuzia: la prova sulla separazione delle carriere per lei è di quelle a rischio limitato. Se la riforma sarà confermata vincerà lei in quanto capo del governo, se sarà sconfitta perderà soprattutto Forza Italia, sponsor ufficiale della separazione. Lo stesso discorso vale per l’autonomia differenziata, se l’ 11 gennaio la Consulta darà il via libera al referendum, che in quel caso sarebbe però abrogativo e richiederebbe la maggioranza assoluta degli aventi diritto per essere valido. Se il quorum non sarà raggiunto avrà vinto comunque il governo. Se il 50% dell’elettorato voterà e quindi l’autonomia sarà affossata avrà perso soprattutto la Lega. Il premierato targato Giorgia sarà pure, come la sua madrina ripete, “la madre di tutte le riforme”. Lei però preferisce giocarsela sulle zie delle riforme, autonomia (forse) e giustizia.

Perché in quel caso uscirebbe solo ammaccata da eventuali brutte sorprese nelle urne e non azzoppata come invece finirebbe se sconfitta sul ‘ suo’ premierato. Le sentenze su Renzi e Salvini aprono però anche un’altra partita nel centrodestra. La separazione delle carriere è oggi soprattutto una bandiera, il che peraltro non ne sminuisce l’importanza. Ma una sentenza addirittura di proscioglimento e una di assoluzione piena, rispettivamente dopo oltre cinque anni (Renzi) e due anni e mezzo (Salvini), rimettono inevitabilmente in campo il tema della responsabilità civile dei giudici. Storia annosa, anzi che data decenni. Il referendum che di fatto introduceva la responsabilità civile passò a larga maggioranza nel 1987, salvo essere di fatto cancellato l’anno seguente per volontà di Bettino Craxi.

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Dal 2015 una nuova legge ha ampliato i termini e le condizioni nelle quali un magistrato può essere chiamato a risarcire e la legge è scattata da allora in 12 casi, mentre quella dell’ 88 era rimasta lettera morta: non c’era stato neppure un risarcimento a carico del magistrato. Anche così la possibilità che un magistrato debba risarcire sono anguste rispetto al referendum disatteso del 1987. Dopo le sentenze eccellenti nei due processi in questione, il ministro della Giustizia Nordio ha parlato della possibilità, o della necessità, di mettere in campo con maggiore incisività la penalità monetaria a carico dei magistrati. Forza Italia naturalmente è pronta a spalleggiarlo.

Per il partito di Giorgia Meloni una simile ipotesi, molto più della separazione delle carriere, rappresenta però una scelta controversa e difficile. In un certo senso un vero bivio. FdI non è in nessuna misura un partito garantista. Il suo elettorato, e anche il suo gruppo dirigente, sono per lo più paladini della formula: ‘Più galera e più galere‘. Sono pronti allo scontro con la magistratura ma solo se si vedono direttamente toccati, come nel caso del protocollo italo-albanese. Che la premier decida di andare avanti sulla riforma della giustizia, una volta piantata la bandierina simbolica che dovrebbe sancire il ritrovato primato della politica sulla magistratura è molto poco probabile.



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