Una banca più è grande, meglio opera? Una questione controversa

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La vicenda della scalata di Unicredit a Commerzbank e l’offerta pubblica di scambio su Banco BPM, ripropone il tema delle dimensioni aziendali nel mercato bancario. Singolare vicenda quella del “Credito Italiano” che nasce su iniziativa prevalentemente di capitali tedeschi nel 1895 e centotrenta anni dopo punta a controllare una delle più importanti banche tedesche con centocinquanta anni di storia alle spalle. 

La questione si inquadra, almeno secondo Unicredit, nella ricerca di una maggiore integrazione del mercato finanziario europeo (mercato unico dei capitali?), ma ripropone la questione delle economie di scala nell’industria bancaria, ossia la possibilità che l’aumento delle dimensioni riduca i costi unitari e quindi causi un aumento di competitività.

Se la cosa fosse vista solo da questo punto di vista ci potrebbero essere dei dubbi sull’effetto finale, perché l’esistenza di economie di scala nell’industria bancaria è una questione controversa: non è scontato che efficienza e redditività degli intermediari finanziari siano legate a determinate soglie dimensionali. Anzi secondo diverse analisi le performance bancarie non dipendono prioritariamente dalla grandezza dell’intermediario bancario come dimostra il recentissimo volume di Mario Comana, Brunella Bruno, Immacolata Marino e Stefania Milanesi sui modelli di business bancario. Anche in Europa l’appartenenza delle banche a una determinata classe dimensionale non aumenta la probabilità di essere un “top performer”.

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Ma potrebbe esserci anche una possibile altra chiave di lettura (magari integrativa) della vicenda Unicredit che riguarda la tipologia di servizio offerto: la Commerzbank è molto vocata per la clientela imprenditoriale medio-piccola e lo stesso vale anche per Banco BPM. In altri termini si tratta di banche in cui gli aspetti di relazionalità con il cliente sono particolarmente sviluppati attraverso una presenza capillare e, anche territorialmente, più vicina alle imprese. Le imprese di minori dimensioni richiedono un approccio molto più di servizio da parte dell’intermediario creditizio, specialmente quando devono finanziare investimenti con forte contenuto immateriale.

L’innovazione, e quindi la crescita della produttività aziendale, passa sempre più per i cosiddetti asset intangibili: sia quelli aventi carattere innovativo-tecnologico (come ricerca e sviluppo, software, ecc.) sia quelli più organizzativo-manageriali. 

Da questo punto di vista l’Italia è parecchio indietro rispetto ai principali competitor, nonostante la crescita degli ultimi anni, al punto che da noi l’incidenza sul Pil è la metà di quella di Stati Uniti e Francia e comunque inferiore a Gran Bretagna e Germania.


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Questi investimenti sono complessi anche perché il loro effetto è non solo più difficilmente quantificabile sulle performance aziendali (hanno un risultato più incerto) ma anche perché le imprese, soprattutto quelle di minori dimensioni, hanno più difficoltà a rappresentarli adeguatamente per il finanziamento. Il problema delle asimmetrie informative è particolarmente evidente in questo caso e può comportare fenomeni di razionamento del credito cioè di limitazione dei finanziamenti bancari di qualità e quantità adeguata per lo sviluppo.

“Il banchiere […] è un fenomeno dello sviluppo […] sta tra coloro che vogliono introdurre l’innovazione e i possessori di mezzi di produzione. È in sostanza l’èforo dell’economia”. Questo scriveva Joseph Schumpeter padre della “Teoria dello sviluppo economico” (di matrice imprenditoriale). 

Ma per essere il giudice (l’èforo) serve anche un approccio più relazionale nella concessione del finanziamento, definito di relationship lending, che integra il credito con supporto consulenziale sulle strategie di innovazione e organizzative, rispetto alla semplice concessione ordinaria.

Una recente analisi dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, condotta insieme a Marco Gentile, Marco Pini e Domenico Bognoni, focalizza sul ruolo del relationship lending per le imprese. 

E’ ancora minoritario, infatti è segnalato dal 12% delle imprese rispetto al tradizionale rapporto di concessione creditizia. Ma le aziende che hanno questo tipo di rapporto esprimono una più ampia capacità di investire sia in innovazioni green che in quelle digitali, ossia sugli aspetti della cosiddetta “duplice transizione”. 

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Questo tipo di relazione, pure in epoca di montante intelligenza artificiale e di globalizzazione della finanza, ancora ora passa per strutture bancarie con una più salda presenza sul territorio, che spesso “saltano” i tradizionali paradigmi di dimensione aziendale. Strutture che si vanno rafforzando: nel 2023 rispetto al 2022 da noi le banche più grandi hanno ridotto gli sportelli di quasi l’8% a fronte dell’invarianza (anzi di un lieve incremento) di quelli delle banche più piccole. Lo stesso è accaduto per il personale, che si è lievemente contratto per le banche maggiori, mentre è cresciuto di quasi il 3% per quelle minori.

Ma allora, guardando al supporto di investimenti più complessi e immateriali, non è solo la dimensione bancaria che fa efficienza, ma il modello di gestione e di vicinanza alla clientela, che indubbiamente va integrato con la digitalizzazione e specializzazione del rapporto creditizio, che però in diversi casi non può essere un surrogato, almeno nei sistemi produttivi a fortissima presenza di piccole imprese come il nostro, se la banca deve essere l’effettivo “eforo dell’economia”.



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