E se ‘Squid Game’ avesse già smesso di stupirci?

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Chi prende le serie tv come un esercizio di religione lo sa: non è un buon segno, quando si annunciano due stagioni contemporaneamente. Squid Game, la serie tv dei record targata Netflix che nel 2021 ci aveva fatto diventare tutti un po’ hallyu, patiti di intrattenimento Made in South Korea, ha deciso di giocarsi questa carta nella prova che, se fossimo in musica, chiameremmo sophomore: il numero due, la seconda produzione. Quella che potrebbe confermare o ribaltare il nostro giudizio su qualcosa che ci è piaciuto tanto (perché la prima stagione dello show di Hwang Dong-hyuk ci era piaciuta davvero tanto), ma per cui temiamo di essere caduti nella trappola dell’infatuazione. Tanto fumo, insomma, senza un briciolo di arrosto.

Infatti a fine ottobre, alla conferenza stampa di presentazione di Squid Game 2 al Lucca Comics and Games, si era parlato anche di una terza stagione, in arrivo nel 2025. Personalmente questi annunci non mi galvanizzano, anzi, al massimo mi spaventano. Mettono le mani avanti, non sei tu sono io. Guarda che potrebbe non funzionare, almeno non subito, ma ci sarà un’altra chance. Ok. Una ci prova pure, a tenerselo a mente. Vedi la red flag, per dirla con un termine di moda nella psicologia spiccia di internet, ma poi decidi di ignorarla. Ci finisci sotto, e quando te ne accorgi, ormai la frittata è fatta.

Il momento di disillusione, nella seconda stagione di Squid Game, arriva molto presto. Ma ripassiamo: nella Corea del Sud contemporanea, la popolazione ha un problema di debito privato. Chiedere prestiti per vie legali e no è molto semplice, e il balzo in avanti dell’economia del paese ha lasciato indietro molti, costringendoli a farvi ricorso. Impossibilitati a saldare i propri conti e minacciati dai creditori (tra cui un nutrito manipolo di criminali e trafficanti di organi), per alcuni il confine tra la vita e la morte si assottiglia.

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È tra questi che vengono reclutati i partecipanti allo Squid Game, macchina dell’intrattenimento per pochi ultraricchi dove il principale divertimento è veder morire i partecipanti in sfide cruente, sanguinarie e disumanizzanti, che hanno però la peculiarità di essere “adattate” da giochi popolari, di strada, e spesso rivolti all’infanzia – pensiamo a Un Due Tre, Stella e alla bambola assassina della prima stagione.

Arrivati alla 33° edizione, l’ultimo vincitore dello Squid Game è stato Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), che si è aggiudicato 45,6 miliardi di won sudcoreani. Il prezzo che ha espiato: un flirt continuo con la morte, vedere cose che preferirebbe dimenticare, sentirsi cane in mezzo ai cani. Si è tinto i capelli di rosso, e non sta esattamente bene. Ha deciso che vuole fermare il gioco. Ed è qui che iniziano i problemi.

In primis, perché non si sa davvero dove le prove abbiano luogo. Per sua fortuna lo scopo è condiviso da Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), poliziotto che nella prima stagione aveva infiltrato il sistema delle guardie per cercare il fratello scomparso In-ho. Solo che questi, a sua volta, si è rivelato appartenere allo stesso sistema che Jun-ho e Gi-hun vorrebbero smantellare. Comunque: Jun-ho si mette alla testa di un gruppo di ricerca, innestando così una linea thriller/spionaggio all’interno della narrazione. Un aiutante che, però, troverà più di un ostacolo sul suo cammino.

In secondo luogo, Gi-hun non l’avrà facile perché il problema principale dello Squid Game non è lo Squid Game stesso, ma il fatto che i partecipanti siano, di fatto, volontari. È il gioco del diavolo, che nella sua etimologia (il greco dia-ballo) unisce i sensi di divisione e penetrazione. Dilania (cioè confonde) per vincere e convincere. Il diavolo non costringe ma invita, seduce. Il male si realizza nella libera scelta dell’uomo.

È una visione distorta del mondo, quella che viene offerta ai giocatori, e Gi-hun ora lo sa. Quindi vuole tornare dove la sua nuova vita è cominciata, perché nel corpo è vegeto, ma lo spirito è sfumato via. Vuole aiutare la polizia a rintracciare le attività illegali del gruppo, certo (tra cui traffici di organi prelevati dai cadaveri dei giocatori). Ma c’è di più, in noi serpeggia un’intuizione: Gi-hun non sa stare da nessuna altra parte, e quello che lo guida è una pulsione di morte. Esattamente come all’inizio. Esattamente come tutti i nuovi giocatori (con le loro trame segrete) che imparerà a conoscere nei sette episodi di questo secondo capitolo.

A contorno arriva un nuovo sistema di votazione, che potrà permettere ai giocatori di interrompere tutto al termine di ogni prova, spartendosi equamente il bottino accumulato; e prove nuove, cruente quanto se non più delle prime. Con cui Hwang, che è sia regista che autore della serie, ci ricorda che, come le gestisce lui le scene di azione e tensione, pochi là fuori.

Non solo: il mondo dello Squid Game viene scardinato, aperto verso l’esterno e integrato delle componenti mancanti per costruire un universo allargato – vi ricordate la seconda stagione di The Bear, quella che usciva dalla cucina? Ecco, dal gioco non si può (ancora?) uscire, ma dal punto focale unico sui partecipanti sì. Preparatevi insomma a capire di più di quello che gira attorno all’organizzazione. E a mischiare ancora una volta le carte del giusto e dello sbagliato, nel nome di un’anti-morale machiavellica per cui, quando sei in guerra, tutto è concesso – e la società di oggi, di conflitto, ne sa persino troppo.

Solo che. Solo che, se la prima stagione era un prodotto d’azione, spettacolo e stupore, già arrivato al secondo giro di boa Squid Game si fa più di parola che di fatto, e assume la cadenza di un’orazione Catilinaria: chi organizza il gioco è cattivo, declama Gi-hun. No, dobbiamo continuare nelle prove, risponde chi non vuole mollare. Siete degli illusi, e poi: sei un idealista. Il risultato è portare all’esterno dello spettatore quel conflitto interno fertile, e agganciante, che aveva fatto premere Play compulsivamente su tutti gli episodi della prima stagione. La domanda che rivolgiamo a noi stessi non è più fin dove può arrivare l’essere umano, ma quando arriva il prossimo gioco, ché voglio veder morire qualcuno. Hanno anestetizzato anche noi. Siamo caduti preda dell’adrenalina dell’intrattenimento, panem et circenses. E su un messaggio ulteriore (di fatto lo stesso della prima stagione), ma declamato a parole cubitali, non riusciamo più a concentrarci.

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Insomma: a Squid Game ci eravamo arrivati affamati, senza sapere di esserlo. Avevamo addentato una storia cruda e indiavolata, senza sconti. Oggi, invece, il piatto ci viene servito da un cameriere che, come scriveva Jean-Paul Sartre, non “è” un cameriere, ma “ne recita la parte”. C’è un problema di autenticità. Squid Game ha cominciato a ragionare sapendo di essere Squid Game, e facendolo è inciampato nell’imperativo dell’essere “come ci si aspetta” che sia. In quel momento tu, da fuori, ti riprendi dall’infatuazione. In quel momento noti la maschera, e dietro non c’è nulla. Abbiamo già visto tutto. Era già tutto previsto.

Non è facile, dirsi che una storia (narrativa o sentimentale che sia) è in crisi. Che ci siamo abbagliati, che abbiamo corso, che avremmo potuto essere felici solo se, eccetera eccetera. Non lo si vorrebbe mai fare. Forse vogliamo ancora credere nelle seconde possibilità. Allora l’unica è aspettare davvero la terza stagione. Convincendoci che il passaggio in mezzo non sia stato niente più che un incidente di percorso. Alla fine si ritorna sempre lì: chi è avvezzo, lo sa. Che si annunci subito un capitolo riparatorio non è una grande cosa. O magari lo sarà nel caso di Squid Game: ma a questo punto sì che dovrà superare le nostre aspettative.





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