La storia di un cameriere diventato founder per cambiare la ristorazione. «L’idea mi è venuta in Erasmus. Il lavoro non può essere l’unica ragione di vita»

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Luca Lotterio, 31 anni, è il Ceo di Restworld. Fin dall’adolescenza ha fatto diversi mestieri per pagarsi gli studi e guadagnarsi l’autonomia. «Conosciamo questo settore, dove si fatica anche 70 ore a settimana. Con l’AI elaboriamo 15mila candidature al mese per posti sicuri e onesti»

«Con la ristorazione abbiamo voluto tirare fuori gli scheletri dall’armadio: lavoro in nero, droghe, discriminazione, burnout. Fare il cameriere viene considerato un lavoro di serie B, quando in realtà offre grandi percorsi di carriera. Il settore viene raccontato poco e male, con parole negative come sforzi, sacrificio, un mestiere che devi fare per passione. Alcuni anni fa hanno provato pure a inserire il lavoro del cuoco tra quelli usuranti. Se lavorassero normalmente non lo sarebbe, organizzando bene i turni. I ristoranti o cambiano o falliscono». Luca Lotterio, 31enne romano, è un fiume in piena quando parla del comparto che conosce fin da quando era ragazzino. Oggi è Ceo di Restworld, startup che fornisce ai locali camerieri, cuochi e personale di sala, in base alle loro esigenze. «Vogliamo creare una piattaforma di HR management system per la ristorazione». Poche settimana fa ha chiuso un round seed da 1 milione di euro.

Luca Lotterio, Ceo di Restworld

Giovane con esperienza

«Vengo da una famiglia normalissima – ci ha raccontato Lotterio -. Da giovane ho sempre lavorato perché se volevo uscire mi servivano i soldi». La necessità lo ha spinto a cimentarsi con un sacco di mestieri, utili anzitutto a capire un mercato del lavoro fatto di free lance, precarietà, assenza di diritti e prediche a non finire sui giovani fannulloni. «Per un po’ ho pure insegnato hip hop ai ragazzini, ma quando ho dovuto scegliere tra il farlo diventare il mio lavoro o l’università, ho scelto la seconda opzione».

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Durante gli anni delle superiori, quando il delivery non era ancora così diffuso, Luca Lotterio ha consegnato pizze. «Il motorino me lo sono pagato facendo volantinaggio. Avevo 15 anni più o meno. Stradario in mano, consegne in città. Già lì ho avuto l’opportunità di gestire un gruppo di rider». Dopo ragioneria, si è affacciato alla facoltà di ingegneria, scappandone molto alla svelta. «Per un anno e mezzo ho fatto vendita diretta. Materassi, depuratori. Consumavo la suola delle scarpe, ma anche da quel settore ho voluto andarmene». A contatto con il settore vendita e le tante necessità delle persone ha finito con l’appassionarsi di marketing e psicologia.

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Il team di Restworld

La triennale in psicologia a Roma è andata dritta, con un Erasmus a Tenerife pagato con una stagione a Edimburgo. «Ho trascorso l’estate là, lavorando in ristoranti italiani». La vita di ciascuno può essere scandita in vari modi. Quella del Ceo di Restworld senz’altro in tappe lavorative tra locali e ristoranti. Per iscriversi infatti alla magistrale che gli interessava, a Torino, è stato a Terracina. «Sono stato responsabile di sala in un campanile sconsacrato».

Nella città sabauda, dove si è iscritto per frequentare psicologia del lavoro, Luca Lotterio ha continuato a lavorare nella ristorazione, durante la stagione sciistica. Fino a quando non ha avuto l’opportunità di mettere a terra quel bagaglio di esperienza, fatta di problematiche e frustrazioni di tanti colleghi. «Nel 2017 ho fatto un altro Erasmus in Romania, a Timisoara. In uno degli esami ho dovuto simulare un processo di recruiting interno di un’azienda. Ho lavorato su un modello di fast food, ma in versione slow. Sulla carta era Restworld. Il mio modello prevedeva questo: se lavori, hai la competenze giuste e conosci un’altra lingua puoi fare carriere in altri negozi della catena».

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Una startup nata sui banchi d’università

Di ritorno dalla Romania Luca Lotterio ha così messo mano alla tesi, con l’idea di farne qualcosa di concreto. «Riqualificare le professioni di sala, era il focus del mio lavoro. Ho coinvolto Davide Lombardi (Coo, ndr), che sarebbe diventato uno dei soci. Mi servivano 100 interviste ai ristoranti. Alla fine ne abbiamo fatte 100 ai locali e altrettante ai lavoratori». Non un campione rappresentativo, ma intanto un valido modo per avere un’istantanea rozza della situazione.

Tra le particolarità di Restworld è che il Ceo ha scelto un approccio iniziale quasi da laboratorio di ricerca. «Io e Davide abbiamo cominciato a studiare il mondo startup, partecipando a tutti gli hackathon possibili. Eravamo due psicologi senza competenze». Lungo il cammino hanno coinvolto due ingegneri: Lorenzo D’Angelo (Cfo) ed Edoardo Conte (Cto). «Abbiamo coinvolto più studenti possibili: la mia idea era tirarne fuori un filone di ricerca sul comparto della ristorazione». Nel settembre 2019 è stata fondata l’azienda con i primi 12mila euro raccolti a febbraio 2020.

E poi la pandemia, con i ristoranti e tutti i locali chiusi per mesi. «Siamo partiti con un mercato che non c’era più. L’ufficio per un certo periodo è stato in camera mia. Il Covid ci ha dato una bastonata, ma se avessimo aperto anni prima sarebbe stato peggio, con tutti i costi fissi a cui far fronte». I mesi di lockdown sono serviti a portare avanti un lavoro di analisi. «Noi nel 2020 eravamo più un laboratorio di ricerca, mal finanziato, che una startup».

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Al giorno zero Restworld si proponeva come piattaforma di matching, mentre oggi opera come agenzia del lavoro. «Noi conosciamo questo settore, dove sugli orari di lavoro ci si spinge anche a 70 ore a settimana». Ovviamente non è facile cambiare da soli una cultura che, come in tutti i settori, ha gravi problematiche legate a sfruttamento e assenza di tutele. Nel suo piccolo, come ci ha spiegato Luca Lotterio, l’obiettivo di Restworld è segnalare opportunità per un lavoro «sicuro e onesto».

La startup come tante altre sfrutta l’AI. «Ogni mese elaboriamo 15mila candidature: di queste ne mandiamo a colloquio mille e 200 persone vengono assunte». Quattro i verticali: sala, bar, cucina e reception. «Le varie aree comprendono 67 ruoli diversi». C’è però un altro dato che trasmette ottimismo al Ceo rispetto a un cambio di paradigma. «Oggi il significato del lavoro è cambiato da un punto di vista culturale: un tempo era l’unica ragione di vita, ora per molti è una commodity nella vita di una persona».

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