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Sono arrivato a Roma il 16 novembre per partecipare a un’assemblea nazionale alla Sapienza, indetta per rispondere all’eventuale approvazione del decreto sicurezza 1660. In un’aula magna stracolma, l’assemblea si è svolta attraverso brevi interventi in cui esponenti di varie realtà politiche, associative, sindacali e di movimento, hanno portato il proprio punto di vista sulla questione del decreto. A essere sottolineata è stata soprattutto la necessità di organizzarsi e scendere in piazza coesi, poiché l’attacco del governo potrebbe cambiare la storia giuridica e sociale del nostro paese. La criminalizzazione del dissenso che viene proposta, ha affermato un professore dell’Università romana, è forse peggiore delle misure repressive degli anni Settanta, quando c’era la lotta armata. Ora a essere puniti e considerati criminali e terroristi sono gli attivisti per il clima, le persone migranti, chi rivendica il diritto alla casa, chi lotta per i diritti sul lavoro, chi si oppone a trattamenti degradanti nelle carceri. E a essere tutelate e difese sono le forze dell’ordine. C’è evidentemente un cortocircuito tra ciò che il governo Meloni intende per sicurezza, e quello che il concetto di sicurezza significa in una democrazia.
L’assemblea è stata seguita nel pomeriggio dal Climate Pride, una parata colorata e pacifica che ha percorso il centro di Roma in nome della giustizia climatica, per fare pressione nei confronti di chi nelle stesse ore si trovava a Baku, in Azerbaijan, dove si è svolta la COP29. Qualche giorno dopo, all’interno di questo fermento collettivo, è successo qualcosa di diverso al centro della Capitale. Questo è il mio racconto “dal di dentro” con Extinction Rebellion Italia.
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La sera del 21 novembre partecipo a un briefing per l’azione del giorno seguente. Durante quattro ore di riunione ci vengono spiegati i possibili scenari, i livelli di rischio, il funzionamento della comunicazione, e ci viene impartito un breve addestramento sulle azioni di disobbedienza civile non violenta. Il numero di informazioni è copioso. La preparazione dettagliata.
Il giorno dopo arrivo a Termini leggermente in ritardo e incontro i miei buddies per la giornata. Siamo nel gruppo benessere, che durante le azioni si assicura che tutte stiano bene, e provvede con cibo, coperte e acqua ai bisogni primari. Nell’attesa di un messaggio dalla nostra referente ci mettiamo a fare colazione in un bar lì vicino. Sono le 9:30 circa.
Con una mezzora di attesa in più del previsto riceviamo la comunicazione che gli altri gruppi stanno procedendo con il piano A. Dopo il segnale di conferma ci dirigiamo nel luogo dell’azione, che si rivela essere piazza del Viminale. Guidate da una crescente puzza di sterco arriviamo in piazza. Il letame portato dal camioncino delle attiviste – circa sei quintali – è già stato scaricato. Di fronte alle tende aperte per occupare la piazza, si schierano i poliziotti a presidio dell’ingresso del palazzo.
Agenti in borghese iniziano a rimuovere le attiviste dalle tende, la situazione diventa tesa e concitata. Mentre trascinano fuori le persone sono ripresi da molte telecamere e anche per questo sembrano agire con cautela, anche se c’è chi ha preso qualche calcio e qualche botta in testa.
La presenza della polizia sembra aumentare con il passare dei minuti. Quando mi volto, dalla schiera di poliziotti dietro di me sento le parole: “Da qui non esce nessuno”. Dopo poco, la polizia decide di sgomberare l’intera piazza. Le attiviste intonano cori, suonano tamburi e fanno discorsi ad alta voce, raccontando perché sono lì. Mi viene da chiedermi per chi, visto che non ci sono rappresentati politici e le persone comuni che passano, anche volendo assistere non possono perché la polizia ha “chiuso” la piazza. Nemmeno i giornalisti posso entrare, ma ci sono i social.
I due police contact discutono animatamente con gli agenti della Digos per arrivare a un accordo e permettere a chi vuole di lasciare la piazza e non finire in questura. È una trattativa laboriosa, perché la polizia sembra non voler far uscire nessuno, senza offrire ragioni. Ma si arriva a un compromesso. Tutte identificate, fotografate, e poi fuori. Le persone che decidono di rimanere dentro la piazza vengono prese una a una e portate come “sacchi di patate” dentro due autobus della polizia, che ricordano quelli delle gite scolastiche. Un poliziotto ci dice che non andranno in questura, ma all’ufficio immigrazione, perché c’è più spazio, a un’ora dal centro, lontano dai palazzi della politica.
Alcune di noi intanto si dirigono al bar mentre fuori inizia a piovere forte. Quando spiove, passeggiamo tra i Fori imperiali e il Colosseo per prendere la metro verso l’ufficio immigrazione. Il contrasto tra la bellezza del centro di Roma e il luogo che ci attende è straniante. Saliamo sulla metro B, scendiamo a Rebibbia. Dopo la metro, altri venti minuti di autobus lungo una strada piena di rifiuti per arrivare in una desolante zona industriale: Tor Sapienza.
Fuori dall’uscita ma dentro i cancelli, ci sono delle panchine sulle quali ci sediamo. Vengono posizionate cassette con il pranzo che era stato preparato per la giornata e una cassa di arance. Poco dopo escono due militari di turno. Uno di loro, un giovane, ha un atteggiamento amichevole. Chiede cosa abbiamo combinato, ci dice che capisce ma non è d’accordo con gli eccessi e accetta di mangiare un’arancia che gli viene offerta. Poco dopo esce una donna che lavora in questa sede della questura e ci invita ad allontanarci, dicendo che disturbiamo e che non è mica un luogo pubblico (ah no?).
Ci mettiamo all’ingresso della strada, di fianco all’entrata. Alcune persone hanno tamburi e suonano, altre danzano. Io chiacchiero con due attivisti, uno di Venezia l’altro emiliano. Sono colpito nel notare il forte senso di comunità che caratterizza questo gruppo di XR, con persone da parti diverse d’Italia. Percepisco una forte condivisione di valori, linguaggi, pratiche. A questo proposito N. mi dice che lui non capisce chi non va a votare, ma che allo stesso tempo il voto rappresenta una parte minoritaria della vita politica in una democrazia, che è fatta invece di queste cose. M. parla di suoi trascorsi in altri cortei, in cui la polizia ha un atteggiamento più violento rispetto a quello che vediamo con le azioni di XR. È un tema che ritorna in varie conversazioni. La polizia li vede come nemici? Io credo che li vedano più come un fastidio, come un problema da risolvere. Parlando con loro mi rendo sempre più conto di quanto il movimento sia fatto di persone “ordinarie”, di varie generazioni e con diverse identità politiche. Sono persone che, stufe o disorientate dal panorama politico, hanno trovato una famiglia dentro questa realtà; ma sono anche persone che lavorano, che pagano le multe, che magari fanno parte di altre realtà sociali e politiche. È necessario decostruire la retorica mediatica dei “ragazzini” che non sanno cosa vuol dire vivere in società, o quella ancora peggiore dei “terroristi”.
Le ore passano, il freddo aumenta, da dentro nessuna notizia. Non si può comunicare con le persone detenute né con chi le detiene. Sono più di cinquanta, il numero esatto non si sa. Chiediamo che gli venga dato il cibo che abbiamo preparato, ma non è possibile far entrare nulla. Ci viene detto di aspettare e che le persone non sono né in stato di arresto né di fermo, che si stanno svolgendo “normali” procedure identificative, che richiedono tempo.
Intorno alle dieci di sera, dopo circa nove ore, quando il timore che si dovesse passare la notte lì iniziava a farsi concreto, vengono rilasciate le attiviste in gruppi di quattro o cinque. Alcune hanno fogli di via, tutti con durate diverse e completamente arbitrarie. Saranno trentadue in totale, per molti con l’obbligo di lasciare Roma entro due ore. Altre, tutte le restanti, vengono rilasciate senza nulla in mano, come se fosse normale trattenere le persone in questura. Alcune attiviste rientrano dal cancello pretendendo che gli venga rilasciata almeno una dichiarazione sul perché sono state trattenute e rilasciate.
Il momento dell’uscita dalla questura è caratterizzato da emozioni contrastanti. Gli abbracci sono intensi. C’è chi ride, chi piange di gioia per rilasciare lo stress accumulato. C’è chi cerca cibo, che è pronto e caldo anche per la cena. La cucina e la logistica del movimento in queste giornate sono state formidabili. Sono arrivati pasti in qualsiasi situazione e in qualunque luogo.
Alla fine il conto dei danni “legali” è impressionante. Centosei persone identificate, settantadue trattenute in questura per otto-nove ore, trentadue fogli di via, alcuni anche per persone che vivono, studiano e lavorano a Roma. Dai tre mesi ai due anni e mezzo. È finalmente il momento di tornare a Roma. Il viaggio in autobus è divertente. Il bus che porta a Rebibbia passa dopo poco, ma è la direzione sbagliata della circolare. Lo prendiamo lo stesso, ci faremo il giro dentro per riscaldarci anziché aspettare il prossimo. Quando ripassa dalla fermata più vicina all’ufficio della questura, si aggiungono quelle che aspettavano il successivo, e così un autobus solitario nella borgata sperduta si riempie improvvisamente di vita.
Il giorno dopo a mezzogiorno c’è una conferenza stampa indetta in nottata da XR, dopo quanto accaduto il giorno precedente. La conferenza stampa al parco è un momento importante per XR. Oltre a raccontare cos’è successo il giorno prima, a turno alcune tra chi ha ricevuto un foglio di via si presentano e annunciano di volerlo violare pubblicamente in quanto misura illegittima. Una ragazza che lavora come ricercatrice a Venezia tiene un discorso molto chiaro ed elaborato, spiegando i motivi per cui l’azione è stata fatta e rimarcando la questione della sicurezza, al centro della retorica del governo che si accinge ad approvare il famigerato decreto 1660. Spiega che in questa situazione politica e climatica, con queste misure securitarie e questo atteggiamento della questura e delle forze dell’ordine, ci si sente tutt’altro che sicure.
Alla conferenza stampa si vedono pochi giornalisti, ma è comunque un momento significativo. Un gruppo di attiviste sta decidendo di violare pubblicamente delle misure cautelari (i fogli di via) pensate per colpire la libertà di movimento di individui considerati socialmente pericolosi. Lo fanno per l’illegittimità giuridica e morale di queste misure. È un gesto forte di disobbedienza, considerando che rischiano denunce penali. Ci sono vari modi per affrontare queste misure, e una di queste è fregarsene, non rispettandole. Questo non vuol dire che sia facile. Non ci riescono tutte, alcune sono preoccupate per il loro posto di lavoro, altre non se la sentono emotivamente. Sono molteplici le facce della repressione, quella preventiva agisce in maniera subdola, fa sentire le persone insicure e impaurite, e spesso le paralizza. Ma è una giornata a suo modo splendida. Il parco è illuminato dal sole, e poco dopo il gruppo cucina dimostra ancora una volta costanza e dedizione, arrivando con un pranzo pronto per essere consumato, anche camminando. È ora di unirci al corteo nazionale di Non Una di Meno nella giornata contro la violenza sulle donne, di marciare e occupare lo spazio pubblico per un’altra giusta causa, nonostante tutto. (francesco dal cerro)
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