Il musicista barese, neo presidente della federazione italiana di settore, lancia l’allarme «sovranismo»
«C’è qualcuno nelle stanze del Ministero della Cultura che ritiene il jazz estraneo alla nostra cultura: ma noi non siamo soltanto il Paese del melodramma». A lanciare l’allarme «sovranismo» nel mondo delle note è il sassofonista e docente barese Roberto Ottaviano, più volte vincitore del referendum «Top Jazz», da poco nominato all’unanimità presidente della Federazione Nazionale Il Jazz Italiano, dove a partire dai primi di gennaio succederà ad Ada Montellanico, a sua volta preceduta da Paolo Fresu, il fondatore della confederazione che in nome della musica di Armstrong, Davis e Coltrane raccoglie etichette indipendenti, musicisti, docenti e festival, ma anche scuole e fotografi.
Ottaviano, è questa la vera emergenza che si troverà ad affrontare?
«Ferme restando alcune personalità consolidate, intanto va riorganizzato il gruppo di lavoro, per dare maggiore slancio all’attività della Federazione e perché dal punto di vista istituzionale sono cambiati i nostri interlocutori. Negli ultimi mesi sono venute fuori valutazioni errate di qualche funzionario ministeriale. Sta passando l’idea che il jazz non ci appartiene perché viene da un’altra area geografica».
Siamo al sovranismo musicale?
«Sostenere che il jazz non riguardi l’Italia, che non fa parte della nostra cultura, è un po’ anacronistico. Il jazz è una musica che non conosce più confini da molto tempo. Anzi, non avere confini è proprio il suo Dna. Parliamo di una musica capace come nessun’altra di accogliere culture diverse, di farle proprie. Il jazz è stato anche un passe-partout per l’apertura ad altri mondi di molte culture musicali. Se pensiamo a un esercizio di democrazia, di apertura, di accoglienza, penso che il jazz non abbia uguali. E potrebbe rivelarsi il migliore antidoto per un futuro senza chiusure e conflittualità».
In altre parole, è ancora necessario dover far comprendere che esiste un jazz con un’identità tutta italiana?
«Nella sua policromia, il jazz italiano ha sviluppato accenti peculiari. E ancora oggi continua ad avere musicisti di altissimo livello capaci di parlare al mondo con uno stile tutto italiano. Pensiamo anche soltanto al ruolo internazionale che continua da avere Enrico Rava e che ha avuto Giorgio Gaslini».
L’uomo al quale si deve l’ingresso del jazz nei conservatori.
«Non solo. Gaslini è stato il musicista che ha trasferito alcuni tratti salienti del jazz nel cinema, nell’arte figurativa, nella danza e nel teatro».
Esistono aree geografiche del Paese che hanno portato un particolare contributo al jazz italiano, e la «sua» Puglia è tra queste.
«Un po’ decentrata, ma non periferica, la Puglia è riuscita a imporsi a livello nazionale e internazionale come una delle regioni italiane più vivaci, con un tasso straordinario di talenti. Non faccio nomi perché potrei dimenticarne qualcuno».
Tornando al suo ruolo di presidente, lavorerà in continuità con i predecessori?
«Raccolgo un’importante eredità proponendomi di rilanciare le relazioni con il mondo delle istituzioni e ristabilire un equilibrio tra le forze interne: il nostro è un mondo vario, dialogante, ma anche conflittuale, con esigenze che spingono verso interessi a volte eccessivamente personali. Posizioni che non aiutano il jazz ad uscire dalla sua nicchia, nonostante in questi anni si sia guadagnato uno spazio importante».
Qual è il compito specifico della Federazione?
«Rappresentare tutti gli associati, fotografi, musicisti, docenti, organizzatori di festival, ma senza mai sostituirsi o sovrapporsi. Il ruolo della Federazione è mettersi al loro servizio, amplificandone la progettualità, potenziandone le possibilità con un lavoro di concertazione».
L’aspetta un duro impegno.
«La Federazione deve incarnare le diverse esigenze inserendole all’interno di un cronoprogramma condiviso attraverso la formula di rappresentanza con le istituzioni nazionali e processi di internazionalizzazione che garantiscano una sana esportazione delle idee. E per fare questo, deve operare incisivamente negli accordi con la Siae, il Nuovo Imaie e affinché i bandi ministeriali vengano disegnati garantendo una trasfusione tra nuove generazioni e artisticità affermate: sarebbe assurdo pensare a una rottamazione. Significherebbe fare il gioco dell’industria del consumo. E nel jazz la creatività ha bisogno di tempo per essere metabolizzata, non può essere pensata in una catena di montaggio».
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