“Bce non rifarà l’errore sui tassi. Ma così le fusioni sono bloccate”

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Alla vigilia dell’anno nuovo, piccoli e grandi investitori si chiedono cosa cambierà sui mercati con l’era Trump. A partire dai tassi d’interesse. Lo abbiamo chiesto a Giovanni Tamburi, presidente e ad di Tip (Tamburi Investment partners), voce indipendente tra le più ascoltate.

«La Fed, che poi è regolarmente seguita a ruota dalla Bce, ha due strade davanti: accompagnare l’economia continuando a tagliare i tassi ma rischiando di mettere in crisi il debito americano, oppure tenerli più o meno così e consentire all’America di non avere problemi di sottoscrizione, mantenendo il vantaggio di potersi permettere rapporti tra Pil, debito e deficit che in Europa ci sogniamo. Ricordo che per il Covid la Ue ha stanziato 840 miliardi, gli Usa 7mila».

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E quale sceglierà?

«Trump prima o poi licenzierà Powell. Ma in ogni caso la Fed resterà abbastanza autonoma dalla politica e i tassi non scenderanno più di tanto, dato che la Cina non sottoscrive più il suo debito. Ormai si è capito che i tagli non saranno quelli attesi. Un anno fa ci si aspettavano sette tagli entro il 2024. Ne sono arrivati due-tre. Il vero tema non è poi quello dei tassi ufficiali delle banche centrali».

E qual è il vero tema?

«Il finanziamento dei grandi debiti pubblici e delle imprese. I tassi bassi sono durati molti anni e le banche centrali hanno capito di averli tenuti troppo bassi e troppo a lungo. E non ripeteranno più lo stesso errore».

Quali conseguenze sui mercati dei capitali? Lei è un finanziere noto per aver sempre capito dove indirizzare i grandi capitali privati. Cosa cambia se i tassi si stabilizzano in zona 3-4%?

«Una delle conseguenze è il forte ridimensionamento del ruolo dei fondi di private equity rispetto a come li abbiamo visti operare da almeno 20 anni. Anni di operazioni fatte con eccesso di leva, dato il basso costo del capitale che consentiva rendimenti molto più elevati. Ora c’è una situazione nuova, che non si vedeva dal secolo scorso: il private equity fatica a vendere. L’invenduto è stimato in 3,5 trilioni di dollari: sono quasi due anni di tutto l’M&A mondiale, con tutte le operazioni tra industrie ferme. Impossibile. Per cui i prezzi delle aziende stanno scendendo ed anche nel 2025 e forse nel 2026 sarà così. E le imprese non avranno più la sicurezza che arrivava da tutta quella liquidità. Parte del carburante ventennale dell’equity, non c’è già più. Io non ho mai ricevuto tante proposte di sconosciuti da ogni parte del mondo per investire; ciò dimostra che non trovano più i soldi».

Perché allora le Borse crescono ancora?

«Perché il 60% o più degli americani investe in Borsa. Anche i nostri soldi vanno in Usa. Si pensi che il 90% dei capitali italiani va all’estero, invece che nelle aziende italiane».

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Mancano strumenti per investire nelle non quotate?

«C’è molta pigrizia, essere benestanti porta fatalmente alla pigrizia. Se il nostro governo fosse un po’ più pro-impresa passerebbe alla storia. Basterebbe fare tre semplici cose».

Quale occasione migliore per dirle. Prego.

«La prima: semplici vantaggi fiscali per favorire il passaggio della ricchezza privata nel capitale delle imprese sottocapitalizzate. Come i Pir, ma con più coraggio: se si porta un’azienda in Borsa, il capital gain deve diventare esentasse e per 10 anni i dividendi devono essere tassati come i titoli di Stato. La seconda: incentivi ad aggregazioni, fusioni, alleanze: se l’azienda italiana è piccola, aiutiamola. Un esempio: se la differenza tra valori di carico e valori effettivi si potesse ammortizzare nel tempo, creeremmo uno stimolo alle fusioni ed avremmo società più grandi, più forti. In grado di competere meglio. La terza: un po’ quello che si sta timidamente facendo in questi giorni: a fronte di investimenti si ottengono dei benefici, anche sotto forma di crediti d’imposta».

Sono le indicazioni della finanza per un governo che mostra stabilità e durata?

«È la strada che un governo può decidere di percorrere se decide di andare verso le imprese, il mercato e il risparmio. Serve un patto sociale con i risparmiatori e le imprese. E se c’è una persona che può farlo è sicuramente Giorgia Meloni».

Confindustria ha chiesto l’Ires premiale.

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«Mi pare ci sia ascolto, per fortuna, ma è solo una parte del patto. Il tema di come veicolare il risparmio e di come rinforzare le imprese e i mercati finanziari non se lo pone nessuno. Se siamo usciti meglio di tanti altri dal Covid è perché l’imprenditore italiano è bravo e coraggioso.

Per cui bisogna strizzare l’occhio a lui, ai risparmiatori e agli investitori istituzionali italiani. E il miglior modo è quello di dare incentivi a domanda ed offerta per andare in Borsa. È un’occasione importante. Se il governo la coglierà si potrà aprire una nuova stagione virtuosa».



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