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Da Brancaccio (Palermo) alla Nigeria: lotta a mani nude senza sosta. Resistenza alla mafia, alla criminalità, alle ideologie totalitarie. Gli attacchi al Cristianesimo e la difesa di istituzioni e vita religiosa
Il Novecento è stato il «secolo del martirio» per tanti cristiani. Se ne è avuta consapevolezza tardi. Un grande ruolo in questa presa di coscienza lo ha avuto Karol Wojtyla, che ha conosciuto in Polonia l’occupazione nazista e il regime comunista: per lui la Chiesa era tornata ad essere una realtà di martiri come nei primi secoli. Tanto che, durante il Giubileo del 2000, volle celebrare la memoria di «nuovi» martiri con una liturgia ecumenica, cui parteciparono cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani, armeni e altri. Ogni Chiesa ha i suoi martiri, ma – diceva Wojtyla – nel martirio i cristiani sono già uniti.
Il 7 maggio 2000, in un clima intenso, davanti al Colosseo, furono ricordati molti nomi di «nuovi martiri» del secolo XX. Il papa disse: «I nomi di molti non sono conosciuti; i nomi di alcuni sono stati infangati dai persecutori, che hanno cercato di aggiungere al martirio l’ignominia; i nomi di altri sono stati occultati dai carnefici. I cristiani serbano, però, il ricordo di una grande parte di loro». Il ricordo dei martiri contemporanei disegnava un’altra immagine del cristianesimo, non dominatore, ma umiliato, tuttavia resistente. I martiri non erano dei combattenti, ma dei resistenti a mani nude. Tuttavia, con la sconfitta del nazismo e la fine dei regimi comunisti che volevano far scomparire la vita religiosa non solo con la distruzione delle chiese, ma con l’eliminazione fisica dei credenti, i grandi avversari del cristianesimo erano scomparsi con le loro macchine ideologiche e organizzative. Invece, nel 2000, si è constatato che il «secolo dei martiri» non è finito.
L’alternativa umana
Di fronte al dominio della criminalità, i cristiani o i religiosi rappresentano l’alternativa umana al potere mafioso, nonostante siano disarmati. Nel 2005 un’anziana suora americana, Dorothy Stang, fu uccisa in Brasile perché lavorava coraggiosamente per i senza terra. Nel 2007 Floribert Bwana Chui, giovane direttore di un ufficio doganale di 26 anni, attivo con Sant’Egidio in Kivu, viene ucciso perché respinge la corruzione, rifiutandosi di immettere sul mercato merce avariata che avrebbe esposto la popolazione a gravi danni per la salute. Papa Francesco l’ha riconosciuto martire «in odio alla fede».
Ci sono Stati dove i cristiani sono perseguitati. Il caso più evidente è la Corea del Nord: qui non ci si può riunire a pregare. I cristiani sono stati bersaglio del radicalismo islamico, che vuole «purificare» i Paesi dagli «infedeli». Drammatica è stata la fuga (sotto la pressione di Daesh) dei cristiani da Mosul e dalla Piana di Ninive in Iraq, dov’erano numerosi. Ne sono rientrati pochi. In genere i cristiani sono un obbiettivo del terrorismo islamico. Seguiamo, con preoccupazione, la sorte dei cristiani rimasti in Siria, dopo la recente caduta del sanguinario regime di Assad (che pure era considerato un «protettore» dei cristiani da alcuni gerarchi). Come si comporterà, dopo le iniziali promesse di pieno rispetto, il governo di Al Julani? In Centro America, in Nicaragua, il governo ha decretato che tutte le suore straniere dovranno lasciare il Paese e si parla di un progetto di Chiesa alternativa sotto controllo governativo. Dall’ottobre 2022 al settembre 2023, il Paese dove i cristiani sono più colpiti è la Nigeria con 4.118 caduti su un totale di quasi 5.000 nel mondo. Ma perché in tante parti del mondo i cristiani, pur non aggressivi, sono colpiti? Perché? In realtà manifestano un modello di vita alternativo al dilagare della violenza e dell’affermazione di poteri criminali.
Si tratta di una storia di vinti di fronte a macchine feroci nel mondo globale? Certo, il cristianesimo ha le sue sconfitte. Si pensi al conflitto russo-ucraino, dove popoli con la stessa fede e tradizione spirituale si combattono. Anzi le Chiese sono utilizzate per la propaganda di guerra. Il cristianesimo, che parla di pace, di amore, di spirito, è «beffato» dalle forze di un mondo globale (più o meno legali), in cui armi e denaro hanno un ruolo prevalente nelle strategie di controllo. Papa Francesco non demorde e continua a parlare di pace. Il martirio mostra la forza, fragile e debole, di chi crede. Una forza, anche se non armata. Sono cristiani che possono lottare e hanno lottato a mani nude. Hanno lottato cambiando la mentalità della gente. Lo fanno nella speranza che tutto, molto, possa cambiare e che – come diceva Wojtyla – la storia è piena di sorprese. Un martire ucciso nel 1993, nel quartiere mafioso di Brancaccio a Palermo, don Pino Puglisi, era convinto della forza della «debolezza» e della gratuità: «Se ognuno fa qualcosa – diceva con semplicità – allora si può fare molto».
Il Giubileo del 2025 non è un insieme di cerimonie o di riti. Vuol essere, da parte di papa Francesco, una sfida a vari mondi: certo, ai cattolici, ma anche ai cristiani – oggi così tanto divisi nonostante anni di ecumenismo – e a chi si combatte, a chi è pensoso sul futuro, a chi professa altre fedi… È la sfida di rimettere al centro la dimensione spirituale: nella vita personale, nella Chiesa troppo soffocata dalle sue discussioni e inerzie, nei rapporti con le religioni, nella società, senza la pretesa di imporre. Gli uomini e le donne dello spirito sostengono e nutrono la realtà più di quanto vediamo e crediamo: «Gli uomini di vera preghiera e di sobrio amore sono i maestri segreti della storia», scriveva un grande teologo ortodosso francese, Olivier Clément. E continuava affermando che il cristiano scopre «la portata delle armi spirituali» per cambiare il mondo: la preghiera e la solidarietà concreta. Il Giubileo del 2025 sarà un segno di speranza in culture e Paesi diversi, se riuscirà a veicolare questa proposta. Del resto questa non si basa sulla storia dei Giubilei, ma sulla memoria dei martiri e dei cristiani perseguitati, rivelatrice del fatto che si può resistere al male. C’è una forza di speranza, che fa resistere e cambiare.
Farsi comunità
Nell’orizzonte di un mondo di conflitti e di incertezza geopolitica, è facile rinchiudersi nel pessimismo e nella rassegnazione. La domanda è: che posso fare io? La risposta più ragionevole sembra quella di chiudersi nel mondo del proprio io, mentre il Giubileo utopicamente chiama a farsi comunità, a uscire e pellegrinare verso un futuro migliore, a sperare che sia possibile. La speranza, che viene dalla dimensione spirituale, è il centro della sfida del Giubileo. Scrive Francesco: bisogna sviluppare «un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine…». La speranza alimenta entusiasmo: «Tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere… non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti», conclude Francesco. Una donna e un uomo che si aprono alla speranza inseriscono nella storia il «fermento della persona», diceva Clément, convinto che questo agisse in profondità. E amava citare un personaggio del romanzo di Pasternak, Il Dottor Živago, a proposito della rivelazione cristiana: «Qualcosa si è messo in movimento nel mondo… la persona, la predicazione della libertà… La vita umana personale è diventata la storia di Dio». Questa è anche l’utopia del Giubileo.
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