La sentenza del Tribunale di Oristano del 06/11/2024, pronunciata all’esito di una domanda di accertamento negativo del saldo di conto corrente, è un piccolo caleidoscopio delle principali tematiche che vengono affrontate nell’ambito del contenzioso bancario.
Il Giudice isolano, infatti, tocca quasi tutti gli aspetti più critici di un rapporto di conto corrente, spaziando tra l’applicazione degli interessi ultralegali, l’usura genetica e sopravvenuta, l’anatocismo, la commissione di massimo scoperto (e commissioni affini), l’accertamento della presenza di “un fido mediante indici presuntivi”, la prescrizione e la distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie.
Il caso sub judice, invero, ha visto un correntista citare in giudizio la Banca presso cui aveva acceso un complesso rapporto contrattuale (costituito da un conto corrente per corrispondenza con apertura di credito, un conto anticipi fatture e un’ulteriore rapporto di conto corrente ordinario affidato), al fine di far accertare e dichiarare l’invalidità e la nullità degli addebiti relativi all’illegittima applicazione di interessi usurari e/o, comunque, di interessi superiori al tasso indicato in contratto, nonché di commissioni, spese e competenze non espressamente pattuite, chiedendo la corretta rideterminazione del dare avere tra le parti.
Attraverso una previa disamina dell’evoluzione normativa delle singole questioni oggetto del contendere e in applicazione dei principi giurisprudenziali in materia, puntualmente richiamati in sentenza, facendo proprie le risultanze della CTU, il magistrato ha rideterminato il corretto dare avere tra le parti, con una considerevole riduzione dell’esposizione debitoria che l’Istituto di Credito sosteneva di vantare nei confronti del correntista, condannando la Banca al pagamento delle spese di lite e della CTU.
Sull’applicazione di tassi ultralegali.
Il primo elemento vagliato dal Tribunale isolano ha riguardato l’eccepita applicazione di tassi ultralegali.
A tal proposito, il Giudice sardo ricorda che “l’alveo normativo a cui fare riferimento nel caso in esame è tracciato dall’art. 1284 c.c., che al terzo comma stabilisce che gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto, altrimenti sono dovuti nella misura legale, e dall’art. 4 della legge n. 154 del 17 febbraio 1992 (Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari) che ha stabilito per la prima volta la nullità delle clausole contrattuali che per la determinazione degli interessi rimandino agli usi, prevedendo che: «I contratti devono indicare il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora. L’eventuale possibilità di variare in senso sfavorevole al cliente il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione deve essere espressamente indicata nel contratto con una clausola approvata specificamente dal cliente. Le clausole contrattuali di rinvio agli usi sono nulle e si considerano non apposte». Ricorda inoltre che “sempre la legge n. 154/1992 all’art. 5 ha individuato il tasso sostitutivo applicabile in caso di nullità delle clausole contrattuali. Entrambe le norme citate sono state abrogate dall’art. 161, D.Lgs. n. 385 del 1° settembre 1993 (TUB), ma il relativo contenuto è stato trasfuso nell’art. 117 TUB”.
Pertanto, “dall’entrata in vigore della legge n. 154/1992 prima e del D.gs. 385/1993 poi è stata stabilita ex lege la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione degli interessi. Sicché, per i contratti stipulati successivamente, troverà applicazione il tasso sostitutivo ivi previsto”.
Sull’usura originaria.
Per quanto riguarda l’usura, il Giudice sardo ricorda che il legislatore è intervenuto sul tema con la Legge n. 108 del 1996, “che si caratterizza per la previsione di una usura “oggettiva”, con individuazione di un tasso soglia, che era inizialmente il tasso medio (TEGM) risultante dall’ultima rilevazione operata dal Ministro del tesoro, ora Ministro dell’economia, aumentato della metà”.
A seguito della previsione contenuta nel decreto legge n. 70 del 2011, oggi, il tasso soglia “è pari al tasso medio aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali (con la precisazione che la differenza tra il limite e il tasso medio non può essere però superiore a otto punti percentuali)”.
Inoltre, sottolinea ancora il giudicante, “l’attuale art. 644, 4° co. c.p. stabilisce che per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito”.
Non solo, ma “ai fini della individuazione del tasso soglia è previsto l’intervento della Banca d’Italia che deve fornire le indicazioni alle banche e agli operatori finanziari autorizzati per la rilevazione trimestrale dei tassi effettivi globali medi (TEGM). Le Istruzioni della Banca d’Italia provvedono quindi alla classificazione delle operazioni omogenee rispetto alle quali attuare la rilevazione dei tassi medi e all’individuazione delle commissioni, remunerazioni e delle spese collegate all’erogazione del credito che devono essere incluse nelle rilevazioni statistiche, oltre che alla classificazione delle altre voci che devono essere escluse”.
Il tasso soglia dovrà essere, quindi, individuato facendo riferimento a tali istruzioni, tenendo conto di quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella sentenza n. 16303/2018.
Secondo la Cassazione, infatti, “per il periodo compreso tra l’entrata in vigore della L. 108/1996 ed il 31.12.2009 – la base di calcolo da confrontare con il tasso soglia va determinata effettuando la separata comparazione del tasso effettivo globale d’interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS) eventualmente applicata rispettivamente con il tasso soglia e con “la CMS soglia”, calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge n. 108, compensandosi, poi, l’importo dell’eventuale eccedenza della CMS rientrante nella soglia, con il “margine” degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati”.
Sulla cd. “usura sopravvenuta”.
Con riferimento al fenomeno della c.d. usura sopravvenuta, viene richiamata la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 24675 del 19.10.2017, che ha sancito «nei contratti di mutuo, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto».
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In applicazione di tutti i sopra citati principi e in piena adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il Tribunale di Oristano ha ritenuto che al caso sub judice “non sono stati applicati dalla banca tassi usurari”.
Sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi
Per quanto riguarda la capitalizzazione trimestrale degli interessi, invece, il magistrato rigettata “la tesi della Banca, la quale insta affinché il divieto di capitalizzazione trimestrale degli interessi operi fino al 1 luglio 2000, quando la Banca convenuta si sarebbe adeguata alla delibera del CICR 9.2.2000, ed in particolare all’art. 7 di detto provvedimento che indicava le condizioni rispettate dall’istituto di credito affinché dopo l’entrata in vigore della delibera medesima, i contratti stipulati anteriormente fossero adeguati alle norme in materia di capitalizzazione degli interessi”.
Mentre, nell’accogliere l’eccezione del correntista, ricorda che “la delibera del CICR in rassegna è stata emanata in forza di quanto previsto nell’art. 120 commi II e III del TUB così come modificati dal decreto legislativo 342 del 1999. In particolare, al comma II di detta norma veniva conferito al CICR il potere di stabilire «modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizi dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori».
In particolare, la previsione di cui al comma III dell’art. 117 TUB, nella parte relativa all’adeguamento delle clausole anatocistiche stipulate anteriormente all’entrata in vigore della delibera CICR, è stata ripresa dall’art. 7 della delibera medesima. Tale disposizione prevede, infatti, che «le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio. Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30 giugno, possono provvedere all’adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana. Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile e, comunque, entro il 31 dicembre 2000. Nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, essere devono essere approvate dalla clientela».
La delibera, dunque, “ha previsto un iter procedimentale che gli istituti di credito devono seguire per adeguare le “vecchie” clausole anatocistiche ai princìpi espressi dalla medesima delibera e prima ancora dall’art. 120 TUB e prescinde, in ipotesi di condizioni meno favorevoli per la clientela, dalla stipulazione di un nuovo accordo coerente con la disciplina di cui all’art. II dell’art. 120 TUB”.
Ma, come è noto, “il comma III dell’art. 120 TUB è stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta con Sentenza n. 425 del 2000 per violazione dell’art. 76 della Costituzione. La dichiarazione di incostituzionalità del comma III dell’art. 120 TUB ha comportato da un lato che le clausole anatocistiche antecedenti al venire in esistenza della delibera del CICR conservassero il loro carattere illecito per contrasto con l’art. 1283 c.c., dall’altro il venir meno della norma di legge che legittimava il CICR a stabilire le modalità con cui tali clausole dovevano adeguarsi ai princìpi sanciti dal medesimo art. 120 TUB e della delibera stessa”.
Sulla scorta di tali premesse, sostiene il giudice sardo, la sopravvivenza solo formale dell’art. 7 della delibera CICR 9 febbraio 2000 non può giustificare l’applicazione dello stesso atteso che:
“1) non è possibile l’adeguamento di clausole invalide in quanto viziate da nullità per contrasto con norme imperative di legge;
2) è stata caducata la norma di legge attributiva al CICR la facoltà di disciplinare le modalità di adeguamento delle clausole anatocistiche ai princìpi espressi dall’art. 120 TUB e dalla delibera in quanto normativa secondaria che derogava ad una fonte primaria, per cui era necessario che il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio nell’adottarla fosse legittimato da una norma di legge”.
In sostanza, “all’esito del pronunciamento della Consulta è venuta meno la “base legale” che legittimava la delibera del CICR a dettare la disciplina in tema di adeguamento dei contratti già in vigore contenenti pattuizione di interessi anatocistici con diverso regime di capitalizzazione.
Da quanto affermato discende che, per i contratti già in vigore al 9.2.2000, la capitalizzazione trimestrale degli interessi va considerata illegittima anche successivamente al 30.6.2000, in assenza di pattuizione integrativa che preveda pari periodicità.
Pertanto, le operazioni ricalcolo dei tre rapporti in contestazione sono state effettuate senza alcuna capitalizzazione degli interessi per tutti i periodi in cui la stessa è stata applicata in assenza di un’apposita pattuizione.
Sulla commissione di massimo scoperto e le altre commissioni e spese non pattuite.
Per quanto riguarda la commissione di massimo scoperto e le altre commissioni bancarie, il quesito posto dal Giudice al CTU chiedeva “di espungere le relative poste solo nel caso in cui non risulti che la banca abbia stipulato clausole conformi alle previsioni dell’art. 2 bis del decreto legge 29 novembre 2008 n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 e, successivamente, alla data del 1° luglio 2012, escluda la c.m.s. nel caso in cui non risulti che la banca abbia stipulato o adeguato le clausole contrattuali alle previsioni dell’art. 117-bis del TUB e del suddetto decreto CICR”
Le risultanze del CTU, fatte proprie dal Tribunale di Oristano, hanno evidenziato che:
- relativamente al conto corrente ordinario non risulta alcuna pattuizione in merito alla commissione di massimo scoperto, per cui nelle operazioni di ricalcolo sono state escluse tutte le somme addebitate a tale titolo per un importo complessivo pari ad euro 24.676,81;
- relativamente al conto corrente anticipi non risulta alcuna pattuizione in merito alla commissione di massimo scoperto, per cui nelle operazioni di ricalcolo sono state escluse tutte le somme addebitate a tale titolo, per un importo complessivo pari a euro 687,81;
- Infine, sul conto corrente per corrispondenza, il contratto è stato ritenuto “conforme al D.L. 29/11/2008, n. 185, convertito con modifiche nella L. n. 2/2009, vigente alla data di sottoscrizione, per cui le operazioni di ricalcolo sono state effettuate escludendo qualsiasi addebito a titolo di c.m.s. sino al I trimestre 2011, applicando la commissione nella misura pattuita dal 11/05/2011 al 27/10/2011, ed escludendo le ulteriori commissioni applicate nel periodo successivo per assenza di pattuizioni in merito”. Pertanto, “l’importo complessivo delle commissioni non pattuite addebitate e che sono state espunte dalle operazioni di ricalcolo del conto corrente ordinario” è stato pari “ad euro 030,39”.
In merito alle altre spese gestione applicate, rispetto al contratto di conto corrente per corrispondenza del 1998 non sono risultate allegate le relative pattuizioni, né le varie concessione di fido intervenute nel corso del rapporto “nulla dispongono in merito alle spese di gestione”. Pertanto, in risposta al quesito posto dal Giudice, relativamente a detto conto corrente, nelle operazioni di ricalcolo sono state espunte tutte le spese, c.m.s e commissioni sostitutive, nonché le ulteriori spese non pattuite, per un totale complessivo di 40.319,41 euro.
Discorso analogo, per il conto anticipi fatture dove si è proceduto preliminarmente ad espungere tutte le commissioni e le spese non pattuite riferite alle operazioni di anticipo fatture che sono state addebitate nel conto corrente ordinario, nonché la differenza interessi e spese risultanti dalle liquidazioni trimestrali, ad eccezione di quelle maturate nel periodo dal 03/02/2012 al 30/06/2012 per un totale complessivo di euro 9.309,32.
Calcolo, più o meno analogo è stato fatto, rispetto al conto corrente ordinario, dove sono state espunte spese, e commissioni non pattuite e differenza interessi per un totale complessivo di 9.057,34 euro.
Sull’eccezione di prescrizione sollevata dalla Banca
Un ulteriore aspetto su cui il Tribunale ha focalizzato la propria attenzione riguarda l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Istituto d credito.
A tal proposito, nel suo iter motivazionale l’organo giudicante ricorda che, secondo “copiosa giurisprudenza (…) , dall’imprescrittibilità dell’azione di nullità (del titolo di un’annotazione) consegue che l’eccezione di prescrizione potrebbe unicamente essere legittimamente sollevata in quanto volta a paralizzare la pretesa ripetitoria (prescrizione decennale) non potendo, al contrario, mai trovare ingresso in un giudizio volto al mero accertamento della eventuale illegittimità degli addebiti contestati (rectius: della nullità delle clausole ad essi sottese), oggetto dell’azione dichiarativa spiegata dal correntista”.
Ciò posto, nel suo percorso argomentativo il magistrato si sofferma sui singoli princìpi giurisprudenziali che regolano la fattispecie, con specifico riferimento alla:
“a) individuazione delle modalità di formulazione della eccezione;
- b) distinzione – con riferimento ai versamenti effettuati in data antecedente il decennio – tra atti ripristinatori ed atti solutori ed onere della prova in ordine a tale dimostrazione;
- c) modalità pratica di verifica della natura delle rimesse”.
- a) Sull’individuazione delle modalità di formulazione dell’eccezione.
Come rileva il Giudice di Oristano, infatti, il primo problema è “come la banca, alla quale il correntista chieda la restituzione di somme versate indebitamente (ovvero, come ritiene questo giudice, sia attinta da domanda di mero accertamento), debba formulare l’eccezione di prescrizione e, in particolare, se questa – per essere validamente proposta e quindi ammissibile – debba contenere l’allegazione non solo dell’inerzia del titolare, ma anche delle singole rimesse operate nel corso del rapporto ed aventi natura solutoria e, pertanto, dell’avvenuto superamento del limite dell’affidamento da parte del cliente”.
Sul punto, viene ricordato che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 15895 del 21 maggio 2019, hanno affermato il seguente principio di diritto: «l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convento in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da un’apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto e la dichiarazione di volerne profittare, senza che sia anche necessaria l’indicazione di specifiche rimesse solutorie».
Del resto, sottolinea il giudicante, “l’elemento qualificante dell’eccezione di prescrizione è l’allegazione dell’inerzia del titolare del diritto, che costituisce appunto il fatto principale, al quale la legge ricollega l’effetto estintivo del diritto”.
Ne consegue che “la Banca potrà (…) limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore in ripetizione e dichiarare di volerne profittare”.
Il problema viene così spostato “dal piano della allegazione a quello della prova, nel senso che il giudice dovrà valutare la fondatezza delle contrapposte tesi, se del caso avvalendosi di una consulenza tecnica”.
Inoltre, ricorda ancora il giudicante, nella medesima pronuncia, le Sezioni Unite hanno anche affermato che “ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione d’indebito oggettivo, il termine “domanda”, di cui all’art. 2033 c.c., non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora ai sensi dell’art. 1219 c.c.”.
Pertanto, “l’obbligo della corresponsione degli interessi da parte dell’accipiens in buona fede, quale debitore dell’indebito percepito, può decorrere da una data antecedente a quella dell’instaurazione del giudizio, ove sia stata preceduta da uno specifico atto di costituzione in mora, considerato che l’art. 2033 c.c. si riferisce genericamente a “domanda” e non parla specificamente di “domanda giudiziale”, come invece si trova nell’art. 1148 c.c., in base al quale il possessore in buona fede fa suoi i frutti naturali separati ed i frutti civili “fino al giorno della domanda giudiziale”.
Nel caso di specie, secondo il giudicante, “la Banca ha agito in ossequio all’enunciato principio”.
- b) Sulla ripartizione dell’onere della prova in ordine alla natura delle rimesse.
Per quel che concerne la “ripartizione dell’onere della prova in ordine alla natura delle rimesse”, il giudicante richiama la sentenza della Cassazione n. 27704/2018, in cui sono state espresse le seguenti osservazioni.
- a) “Il cliente che agisce per la ripetizione dell’indebito ha l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto vantato e cioè la natura non dovuta delle poste passive annotate sul suo conto corrente (ciò costituendo la causa petendi dell’azione), in ragione, ad esempio, di una indebita capitalizzazione, di interessi non consentiti, di costi non concordati, e così via”.
- b) Da parte sua, “la banca può eccepire la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dalle annotazioni passive in conto, quale fatto estintivo. In tal caso, essa ha l’onere di allegare l’inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata”.
- c) A questo punto, se “il tempo decorso dalle annotazioni passive integri il periodo necessario per il decorso della prescrizione, diviene onere del cliente provare il fatto modificativo, consistente nell’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quei versamenti come mero ripristino della disponibilità accordata e, dunque, possa spostare l’inizio del decorso della prescrizione alla chiusura del conto.
Apertura di credito che non è di per sé, come è noto, un contratto necessariamente riconnesso a quello di conto corrente”.
Fatte queste premesse “la Suprema Corte ritiene che occorra distinguere a seconda che il contratto risulti o meno affidato, ciò perché in caso di conto non affidato tutte le rimesse devono reputarsi automaticamente solutorie, con la conseguente insussistenza di un onere in capo alla banca di individuarle specificamente[1] ed al contempo la sussistenza di un onere in capo al cliente di provare l’esistenza di un affidamento”.
Nella citata sentenza, i giudici di legittimità concludono affermando il seguente principio: «poiché la decorrenza della prescrizione dalla data del pagamento è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti, essa sussiste sempre in mancanza di un’apertura di credito: onde, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel pagamento come mero ripristino della disponibilità accordata»[2].
Opportunamente, nel suo iter motivazionale, il giudice di Oristano ricorda anche che, stando alle Sezioni Unite n. 24418 del 2010, “le rimesse, intanto, si traducono in pagamenti, dai quali decorre il termine di prescrizione, in quanto esse valgano a ridurre lo scoperto di conto corrente non affidato o a ridurre l’esposizione debitoria eccedente l’affidamento”.
Gli indici presuntivi che attestano la presenza di un fido.
È chiaro, quindi, che “compito del giudice è quello di dare le indicazioni al consulente circa i criteri operativi da seguire (che altro non fanno che tradurre in pratica l’affermazione di diritto) e, nello specifico, indicargli secondo quali parametri le rimesse saranno da ritenere solutorie o ripristinatorie”, ed è quello che puntualmente, ha fatto il magistrato isolano.
Al CTU, infatti, è stato chiesto di applicare tali princìpi e di rilevare la presenza di un fido mediante indici presuntivi. Indici presuntivi che “possono essere desunti, a titolo esemplificativo, da: evidenze degli estratti conto; riassunti scalari; eventuali report della centrale rischi; stabilità dell’esposizione debitoria che ne evidenzia il carattere non occasionale; entità del saldo debitore; la previsione di una commissione di massimo scoperto”.
Più nello specifico, “mediante tali (ed altri) indici dovrà essere precisamente individuato l’importo del fido e i tassi di interesse applicati entro e fuori fido”.
- c) Sulla “modalità pratica di verifica della natura delle rimesse”
Detto ciò, l’ulteriore dubbio interpretativo (“a dire il vero tutt’altro che sopito”) affrontato nella sentenza qui in commento ha riguardato “il momento in cui compiere tale operazione, ovvero se prima o dopo la depurazione del conto dalle competenze indebite”.
Non vi è dubbio, infatti, che “la depurazione dalla capitalizzazione ha l’effetto di ridurre l’esposizione debitoria del cliente e ciò incide poi sul valore di pagamento o meno della rimessa, nei fatti riducendo quantitativamente quelle che possono considerarsi solutorie (le uniche dalle quali decorre immediatamente la prescrizione)”.
Sul punto il Tribunale di Oristano aderisce all’impostazione della Suprema Corte, la quale, con la ordinanza n. 9141 del 19.5.2020, ha affermato che “in tema di apertura di credito in conto corrente, ove il cliente agisca in giudizio per la ripetizione di importi relativi ad interessi non dovuti per nullità delle clausole anatocistiche (il principio vale in relazione a tutte le competenze indebite) e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, al fine di verificare se un versamento abbia avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorre previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente rideterminare il reale saldo passivo del conto, verificando poi se siano stati superati i limiti del concesso affidamento ed il versamento possa perciò qualificarsi come solutorio”[3].
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Pertanto, in applicazione di tutti i principi giurisprudenziali sopra espressi e facendo proprie le risultanze della CTU, il Giudice ha rideterminato il saldo finale dell’intero rapporto, costituito da apertura di credito mediante scopertura sul conto corrente, rapporto anticipo fatture e rapporto di conto corrente affidato, depurandolo dagli importi illegittimi ed eliminando quelli prescritti, quantificandolo in Euro -24.547,68, somma di gran lunga inferiore da quella asserita dalla Banca convenuta e riportata nell’estratto conto prodotto.
E, per effetto, l’Istituto di credito è stato condannato all’integrale pagamento delle spese di CTU e alla rifusione, a favore del correntista, delle spese di lite.
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[1] Cfr.: Cass. 24 maggio 2018, n. 12977; Cass. civ., ord., 22.02.2018, n. 4372.
[2] Cfr.: Cass. n. 27704, pubbl. il 30 ottobre 2018.
[3] Cfr.: Cass., Sez. I, Ordinanza n. 9141 del 19/05/2020.
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