stop all’estensione a PMI e startup

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  • Intorno alla Legge di Bilancio 2025 si ipotizzava l’estensione della web tax a tutte le imprese, comprese le PMI, con aliquota al 3% sui ricavi.
  • Il rischio dell’estensione della web tax era quello di coinvolgere anche le piccole realtà, che attualmente secondo uno studio stanno già pagando più tasse rispetto ai grandi colossi del web.
  • Il governo ha deciso per uno stop alla modifica, mettendo al riparo startup e PMI da un costo aggiuntivo che avrebbe pesato sui conti economici. Rimarrà quindi attivo il limite di fatturato di almeno 750 milioni di euro.

La manovra 2025 introduce diverse novità fiscali, tra cui tagli alle imposte sui redditi e una semplificazione delle detrazioni. Nelle scorse settimane si era acceso il dibattito sulla possibile estensione della web tax, che attualmente è applicata solamente alle big tech con un fatturato di almeno 750 milioni di euro, a tutte le imprese.

La tassa, al 3% dei ricavi, avrebbe colpito quindi anche le realtà più piccole, comportando un vero esborso di denaro per le imprese che compongono la maggior parte del tessuto economico italiano.

Le critiche alla decisione sono state immediate: le PMI, già coinvolte da una pressione fiscale sproporzionata, si sono viste ulteriormente tassate, mentre le multinazionali, soprattutto quelle del web, sono coinvolte in agevolazioni evidenti eppure apparentemente inattaccabili.

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Questa proposta recentemente è stata scartata dal governo, proprio per mettere al riparo le piccole realtà come startup e PMI. Nel frattempo l’Ufficio Studi della CGIA di Mestre, con un’analisi approfondita di tali dinamiche1, ha messo nero su bianco numeri che confrontano la pressione fiscale delle big tech e quella delle PMI.

Web tax: stop per PMI e startup

L’ipotesi di modificare l’attuale web tax, che si applica sulle grandi aziende del web con aliquota al 3% sui ricavi e con soglia minima di 750 milioni di euro, è stata respinta dal governo. Salta quindi la possibile estensione della tassa a tutte le imprese, indipendentemente dal fatturato annuo.

Se questa misura fosse stata approvata in sede di Legge di Bilancio 2025, tutte le imprese, anche le PMI e le startup, che operano nel digitale si sarebbero trovate a pagare questa nuova tassa.

Una tassazione estesa a tutti sarebbe l’ennesimo pagamento a carico di piccole imprese e attività nascenti, con obiettivo ben lontano da quello iniziale, per cui si intendeva mettere un limite all’evasione fiscale dei colossi del web. Senza contare che, come vedremo tra poco, una recente ricerca ha messo in luce la forte disparità fiscale tra le PMI e le big tech.

Alla luce delle diverse criticità e alle richieste delle associazioni di categoria, il governo ha deciso di fare marcia indietro su questo emendamento, rinunciando alla modifica alla web tax.

Le PMI tassate 120 volte più delle big tech

Andiamo a vedere da vicino cosa dicono i numeri. I 25 giganti del web che operano nel nostro paese, nomi che rimbalzano su tutte le cronache economiche, da Adobe a Amazon, da Google a Meta, da Microsoft a SAP, hanno versato appena 206 milioni di euro in tasse nel 2022. Una cifra irrisoria se rapportata al fatturato complessivo generato in Italia: 9,3 miliardi di euro. Poco più del 2%. Spiccioli.

E mentre questi colossi tech giocano con numeri che sembrano usciti da un universo parallelo, le piccole e medie imprese italiane lottano, intrappolate in una fitta rete fiscale. Sono circa 2,9 milioni le PMI con un fatturato inferiore ai 5 milioni di euro, che ogni anno riversano nelle casse dello Stato circa 2,6 miliardi di euro in imposte IRPEF, IRES e IRAP. Un peso che schiaccia, un sistema che, più che incentivare, sembra voler punire chi ancora crede nel valore del fare impresa nel Bel Paese.

Eppure, guardando da vicino le cifre, il quadro appare ancora più fosco. Secondo l’Area Studi di Mediobanca2, l’aliquota fiscale effettiva per le multinazionali del web si aggira intorno al 36%, una percentuale generosa se comparata a quella applicata alle PMI, che talvolta arriva a sfiorare il 50%.

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Non c’è da stupirsi, dunque, se a conti fatti, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare ben 120 volte più tasse rispetto ai giganti del web, a fronte di un fatturato complessivo inferiore di circa 90 volte. Un evidente cortocircuito fiscale che diventa ancora più lampante quando si scende nei dettagli.

Se si analizzano i dati a livello regionale, il divario è infatti persino più marcato. Le imprese lombarde, per esempio, pagano al fisco 125 volte più delle multinazionali del web, mentre quelle laziali si attestano a 56,7 volte di più.

In Emilia-Romagna, la sproporzione è di 38 volte, in Veneto di 36,8. E nelle piccole regioni, come il Molise o la Valle d’Aosta, dove il carico fiscale sembra essere un po’ più favorevole alle imprese locali, il divario rimane comunque minimo.

Regioni Gettito principali imposte (milioni di euro) Quante volte pagano in più di imposte le imprese rispetto alle 25 bigtech
Lombardia 25.758 +125,0
Lazio 11.670 +56,7
Emilia Romagna 7.819 +38,0
Veneto 7.582 +36,8
Piemonte 5.593 +27,2
Toscana 5.191 +25,2
Campania 3.911 +19,0
Puglia 2.560 +12,4
Sicilia 2.480 +12,0
Friuli Venezia Giulia 1.775 +8,6
Liguria 1.775 +8,4
Marche 1.624 +7,5
Abruzzo 1.088 +5,3
Prov. Aut. Bolzano 896 +5,2
Sardegna 950 +4,6
Calabria 893 +4,3
Umbria 819 +4,0
Prov. Aut. Trento 767 +3,7
Basilicata 332 +1,6
Valle d’Aosta 190 +0,9
Non ripartibile 2 =
ITALIA 83.975 408

Web tax, big tech e elusione fiscale

Come si è arrivati a questo punto? L’elusione fiscale è la chiave di volta di questa disparità. A differenza dell’evasione, che è un atto illecito, l’elusione è una pratica perfettamente legale, che sfrutta le pieghe della legge per ridurre al minimo l’imposizione fiscale. E chi meglio delle multinazionali può permettersi di utilizzare questi strumenti con una precisione quasi chirurgica?

Alla base c’è l’idea di spostare i profitti laddove la tassazione è più bassa. Una multinazionale può operare in Italia, generare qui milioni, talvolta miliardi di ricavi, ma i suoi utili vengono trasferiti altrove.

Le destinazioni predilette, paradisi fiscali come Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburgo e giurisdizioni off-shore che promettono aliquote irrisorie e un trattamento fiscale di favore. Si stima che solo nel 2022, circa il 40% dei profitti globali delle multinazionali sia stato spostato in paradisi fiscali.

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Il meccanismo è semplice quanto efficace: attraverso tecniche come il transfer pricing, le multinazionali stabiliscono prezzi di trasferimento interni alle proprie controllate, trasferendo così profitti da paesi con alta imposizione fiscale a quelli con un regime fiscale più favorevole. In pratica, la società italiana, pur generando grandi ricavi, dichiara margini di profitto bassissimi perché i costi interni vengono gonfiati artificialmente.

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Un altro stratagemma è il cosiddetto double Irish with a Dutch sandwich, un sofisticato schema che prevede l’uso di una società irlandese e una olandese per trasferire profitti verso paesi con zero o quasi nessuna tassazione. Un sistema che ha permesso a giganti come Google di risparmiare miliardi di euro in tasse per oltre un decennio, fino a quando l’Irlanda, sotto pressione internazionale, ha chiuso questa scappatoia.

E poi ci sono le licenze e i brevetti: i diritti di proprietà intellettuale, marchi, software, brevetti, vengono registrati in paradisi fiscali e le sedi operative, come quelle italiane, devono pagare ingenti royalties alla casa madre, riducendo ulteriormente i profitti imponibili.

Solo nel 2020, circa 800 miliardi di dollari sono stati trasferiti sotto forma di pagamenti per licenze da paesi con alte tasse a giurisdizioni con basse o nulle imposizioni. Le PMI, ovviamente, non possono permettersi lo stesso lusso: le loro radici affondano nel territorio e con esse anche i loro oneri fiscali.

Se la web tax estesa a tutti fosse stata approvata, non solo colossi come Amazon, Meta, Aruba, Microsoft e così via, ma anche le piccole e medie imprese e le startup, che generalmente hanno risorse limitate, si sarebbero trovate di fronte ad una spesa aggiuntiva.

La Global Minimum Tax per le multinazionali

È l’OSCE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ad offrire una possibile soluzione. Si tratta della Global Minimum Tax, un’aliquota minima del 15% sui profitti delle multinazionali, entrata in vigore nel nostro paese a inizio anno.

Ma anche qui, non si tratta di una misura efficace quanto appare. Secondo il Servizio Bilancio dello Stato della Camera3, l’impatto sarà infatti decisamente limitato. Si stima che nel 2025 l’erario italiano incasserà solo 381,3 milioni di euro dalla GMT, una cifra che però dovrebbe salire a 427,9 milioni nel 2026 e a 432,5 milioni nel 2027. Un gettito comunque insufficiente per livellare il campo di gioco.

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Se poi consideriamo che solo 19 paesi UE hanno già adottato una misura che viaggia a più velocità, e che alcuni, come Spagna e Polonia, non lo faranno prima del 2025, mentre altri, come Estonia, Lettonia e Lituania, hanno ottenuto una proroga fino al 2030, è facile immaginare che le multinazionali continueranno a spostare i loro profitti là dove conviene di più. La soluzione, dunque, appare sempre più lontana.



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