Il mezzo golpe e l’immagine della Corea del Sud

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E se la scellerata legge marziale d’emergenza, prima annunciata e poi ritirata nell’arco di appena una manciata di ore da Yoon Suk Yeol, avesse compromesso l’immagine trendy e patinata della Corea del Sud? Se così fosse, sarebbe un danno enorme per la 13esima economia mondiale, la quarta più grande dell’Asia con un pil nominale stimato in circa 1.800 miliardi di dollari nel 2023, e legata a doppia mandata con l’Occidente.

Il passato pende come una spada di Damocle sulla testa di Seoul, che ha fatto di tutto per allontanarlo il più possibile dal presente. Già, perché al di sotto del 38esimo parallelo il primo presidente civile, che non fosse cioè un militare o un prestanome dell’esercito, fu stato eletto soltanto nel 1993 (Kim Young Sam). Prima di allora – se ci pensiamo bene parliamo appena di una trentina di anni fa – la Corea del Sud era l’opposto della culla democratica che conosciamo oggi.

Certo, era una delle Tigri Asiatiche presa come riferimento per raccontare il cosiddetto “miracolo asiatico“, la super crescita economica registrata nel continente da alcuni Paesi, ma è anche stata anche più volte teatro di massacri e bagni di sangue. Due carneficine, quella di Jeju, avvenuta tra il 1948 e il 1948 (ne parliamo qui), e quella di Gwangju del 1980, sono tra l’altro state magistralmente raccontate in Non dico addio e Atti umani, due libri della scrittrice sudcoreana Han Kang, fresca di Premio Nobel per la letteratura.

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All’alba del Duemila, per far dimenticare al mondo intero un passato di ombre e dolori, repressione e violenza, i Governi civili sudcoreani decisero di investire centinaia di milioni di dollari per la promozione dell’industria culturale nazionale. Chiaro l’obiettivo: presentare al mondo intero l’immagine di un Paese nuovo, diverso rispetto al passato, e che niente avesse a che fare con conflitti e militari. L’esperimento ebbe successo visto che nessuno, almeno fino all’autogolpe di Yoon, aveva più associato la Corea del Sud a temi che non fossero legati a K-pop, film, serie televisive, cibo, automobili o prodotti tecnologici all’avanguardia.

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Danno d’immagine

Sono bastate cinque-sei ore per mettere in crisi un’immagine costruita, a fatica, in tre decenni. Già, perché – ricordiamolo – congelata la Guerra di Corea (1950-1953: un conflitto tecnicamente mai finito del tutto), il Paese aveva un reddito pro capite inferiore ai 100 dollari e un’economia che si reggeva in piedi soltanto grazie agli aiuti esteri.

La leadership militare che prese forma negli anni Sessanta avrebbe guidato la nazione con un piglio repressivo e autocratico per un quarto di secolo, riuscendo però a innescare il “miracolo sul fiume Han”, dal nome del fiume che taglia in due Seoul.

Fino alla crisi asiatica del 1997, il reddito pro capite del Paese aumentò di oltre cento volte e il suo sistema economico crebbe ad un tasso medio annuo di quasi il 9%. La democrazia civile sarebbe arrivata soltanto, come detto, a partire dal 1993. Quello fu il momento in cui il Governo – archiviati gli anni della crisi finanziaria – iniziò a pensare anche all’immagine.

Come? Investendo nel soft power. Il risultato è ben visibile, oggi, con i prodotti culturali made in Korea sinonimo di grande moda. Attraverso la K-culture, la Corea del Sud è riuscita effettivamente a migliorare la propria immagine internazionale, il turismo e l’economia.

E adesso?

Ecco: Yoon potrebbe aver danneggiato tutto questo. Chissà se il clima generato dalla mossa del presidente sudcoreano comprometterà la nascita di nuovi fenomeni come quello dei Bts, una delle band più famose del Paese, che nel 2019 valevano lo 0,3% del Pil nazionale e fornivano all’economia di Seoul 4,65 miliardi di dollari derivanti dalla vendita di cd, biglietti dei concerti e merchandising.

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Chissà cosa penseranno gli oltre 11 milioni di turisti che nel 2023 – grazie all’attrattività della K-culture – avevano scelto la Sud Corea come meta vacanziera dei tank apparsi nelle strade della capitale, degli elicotteri militari che volavano sopra l’Assemblea nazionale, del quasi colpo di Stato inscenato da un leader democratico.

E chissà a quanto ammonteranno le conseguenze economiche che chaebol, i grandi conglomerati che tengono in vita l’economia del Paese – da Samsung a Lg, da Hyundai a Lotte – dovranno subire in seguito a questa inaspettata crisi politica.

La K-culture aveva funzionato. I film e le serie tv, l’alta tecnologia e le eccellenti automobili sfornate da Kia, avevano in qualche modo allontanato dal brand sudcoreano i fantasmi di Kim Jong Un, i massacri del passato, gli scheletri della storia. Adesso i mercati sono nervosi e il Governo della Sud Corea balla come non mai. Solo che in sottofondo non ci sono le note del tormentone Gangnam Style di Psy…

Kim Jong-un Corea del Nord La Presse

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