Ginepro protettore. – L’arte testimone dei cambiamenti della moda nei secoli. – Il killer clown. – L’albero della Georgia. – PANDOROFIDAS – S. Lucia. Arancini o arancine? – Il pandoro. – La Natalina. – Hai bisogno di un’idea per un regalo?…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

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Ginepro protettore. In Norvegia, e altrove nel Nord Europa, per Natale si

intrecciano ghirlande con rami di ginepro da appendere sopra le porte per tenere lontani gli spiriti maligni. L’usanza deriva del fatto che nell’antichità con le bacche di ginepro si realizzavano antidoti contro il morso di vipere e serpenti, accostati al demonio nella tradizione popolare. Il ginepro, da quelle parti, viene utilizzato anche al posto dell’abete come albero di Natale, addobbato con fichi secchi, grappoli di uva essiccata, mandarini, biscotti e praline di cioccolato. Tutti destinati a essere mangiati dai bambini man mano che ci si avvicina al 25, mentre il ginepro protegge la casa dagli spiriti. Secondo altri la scelta del ginepro deriverebbe da un episodio narrato nei Vangeli: Giuseppe e Maria, in fuga dai soldati di Erode, trovarono protezione proprio sotto i rami di un ginepro, da allora benedetto. Un’ulteriore tradizione legata al ginepro è riportata da Dante Alighieri nel XVIII canto del Paradiso: quella di gettare ciocchi di questa pianta nel fuoco e, mentre bruciano, batterli con un attizzatoio, provocando scintille che svelerebbero gli auspici per il nuovo anno
Favria, 10.12.2024 Cortese Giorgio

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Buona giornata. Il Natale non è un tempo né una stagione, ma uno stato d’animo. Amare la pace e la buona volontà, essere pieni di misericordia, è avere il vero spirito del Natale. Felice martedì.

L’arte testimone dei cambiamenti della moda nei secoli.

Docente Giovanna Bernard – Mercoledì 11 dicembre c.a.

Conferenze UNITRE’ di Cuorgnè presso ex chiesa della SS. Trinità –Via Milite Ignoto

L’abito è lo specchio dei tempi ed è soprattutto attraverso l’opera degli artisti che ci è possibile studiare i costumi e la moda del passato. Osservando i vestiti nei diversi periodi storici ci si confronta col modo di vivere e di essere dell’umanità che ci ha preceduto. La moda non è solo foggia nel vestire ma è immagine, mezzo per comunicare, porsi e rivelarsi

Il killer clown

L’11 dicembre 1978 il quindicenne Robert Piest scomparve dal luogo di lavoro, una farmacia di Chicago. Prima di sparire, pero, aveva raccontato a parenti e amici di aver conosciuto il simpatico titolare dell’impresa che aveva da poco ristrutturato il negozio, e che l’uomo gli aveva offerto un posto di lavoro. Il ragazzo aveva inoltre precisato che avrebbe dovuto incontrare l’uomo a casa sua, proprio la sera della scomparsa. Quando la polizia si reco a casa di Gracy, per Robert non c’era piu niente da fare, ma l’ultima vittima si rivelo fatale allo spietato serial killer. Gli agenti furono immediatamente investiti dal tanfo dei corpi in putrefazione e presto si spalanco di fronte a loro l’orrore di quella casa insieme mattatoio e cimitero. Ventinove delle vittime di Gacy,  33 in tutto i suoi delitti,  erano state seppellite sotto la sua abitazione o ammassate in cantina. Alla notizia del suo arresto, la comunità  cittadina fu sbigottita e incredula.  Gacy era infatti conosciuto da tutti come un uomo generoso, grande lavoratore e amichevole, nonché un devoto padre di famiglia. Il nome con cui divenne noto alle cronache era Killer clown e  derivava dal fatto che aveva intrattenuto i bambini durante alcune feste con costume e trucco da clown facendosi chiamare Pogo il Clown. Aveva un debole evidente per i ragazzi, ma pochi immaginavano che fosse segretamente bisessuale, perché era sposato. Alla conclusione del processo venne condannato a morte e giustiziato, dopo 14 anni di detenzione nel “braccio della morte”, tramite iniezione letale, nel 1994.

Favria, 11.12.2024 Cortese Giorgio

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Buona giornata. Il Natale lo si sente nel cuore e solo con il cuore possiamo trasmetterne la vera magia! Felice  mercoledì.

L’albero della Georgia

Nel Caucaso  il  Chichilaki è l’albero di Natale della Georgia, realizzato con rami secchi di nocciolo o noce privati delle foglie e ridotti in striscioline arricciate, da decorare con bacche rosse, frutta secca e caramelle.  Il risultato è una piccola e candida conifera, che vuole ricordare la barba di san Basilio il Grande, uno dei padri fondatori della Chiesa d’Oriente e nella tradizione georgiana distributore di regali, come san Nicola, alias Santa Claus, ovvero Babbo Natale. Il Chichilaki viene preferito all’abete perché più rispettoso dell’ambiente, dato che si utilizzano soltanto rami secchi o già caduti. In Georgia i boschi sono considerati  boschi luoghi sacri e l’abbattimento di un albero non soltanto provoca il biasimo generale, ma anche multe salatissime. Per comprendere quanto questa tradizione sia radicata nel Paese, basti pensare che durante il periodo sovietico, il regime di Mosca permise ai georgiani di conservare alcune usanze, ma non quella del Chichilaki, giudicata troppo identitaria. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, però, l’alberello fu reintrodotto e gli artigiani ripresero a realizzarlo nell’intero Paese.

Favria, 12.12.2024 Cortese  Giorgio 

Buona giornata. Il vero messaggio del Natale è che noi tutti non siamo mai soli. Felice giornata.

PANDOROFIDAS

Sabato 14 dicembre  dalle ore 15,00 alle ore 19,00 in Fidas Favria avverrà la distribuzione del PANDORO E CALENDARIO a tutti i donatori, del gruppo Fidas di Favria, che hanno effettuato una donazione nel corso del 2024, Medaglie Oro e Onorificenze Re Rebaudengo. Si terranno le votazioni rinnovo Direttivo anno 2025-2027. In questi anni abbiamo raggiunto traguardi importanti con l’aiuto di tutti Voi. Vi chiediamo se volete  continuare ad aiutare il direttivo  Fidas candidandovi da consiglieri o da Presidente. Grazie. Tutti i soci attivi Fidas Favria Donatori Sangue possono presentare la candidatura per una delle componenti sopra elencate, *inviando alla nostra segreteria all’indirizzo favria@fidasadsp.it la propria adesione con una breve presentazione e candidatura. Oppure scrivendo su WhatsApp al 3331714827. Grazie!

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13 dicembre  S. Lucia. Arancini o arancine?

Arancini o arancine? Che si usi il maschile o il femminile, questo piatto a base di riso, ragù e formaggio mette tutti d’accordo. Sono uno dei simboli della Sicilia, una vera e propria sinfonia di gusto e sensazioni con la loro superficie croccante che si apre alla morbidezza filante del ripieno. Con le loro tante varianti accontentano il palato praticamente di tutti, però sembrano fatti apposta per scatenare discussioni nella loro patria di origine. Il primo dibattito è se si debba usare il maschile “arancino”, come si fa a Palermo e dintorni, oppure il femminile “arancina”, come avviene nel Catanese e nel Messinese. I sostenitori del genere femminile per questo piatto affermano che tutto ha origine dalla parola arancia, femminile appunto. Chi propende per il maschile, come quasi tutti i vocabolari della lingua italiana, ricorda che in dialetto siciliano i frutti sono al maschile e quindi l’arancinu maschio è. L’Accademia della Crusca salomonicamente definisce corrette entrambe le varianti, anche se arancino è predominante nella lingua di Dante. Naturalmente altre discussioni nascono sulle origini, perché ogni provincia siciliana ne rivendica una lontana paternità. Sicuramente il piatto è siciliano doc e probabilmente deriva dall’elaborazione di ricette degli Arabi, dominatori dell’isola per oltre duecento anni, dal IX secolo. Nella cucina araba era frequente l’uso del riso, cotto magari in latte di mandorla, zucchero, acqua e cannella,  che veniva condito con lo zafferano e servito in grandi piatti da portata, accompagnato con carne d’agnello e verdure. I commensali si servivano direttamente dal piatto appallottolando nel palmo della mano un po’ di riso con le carni e la verdura d’accompagnamento. Ecco, quindi, un primitivo esempio di arancino. Mancava però un dettaglio non da poco: la panatura. Secondo una leggenda questa si sarebbe aggiunta durante il regno di Federico II. Il sovrano svevo adorava gli arancini che si preparavano nelle strade della capitale del suo regno, Palermo. Voleva però che questo cibo fosse più semplice da trasportare e che si potesse conservare più a lungo, in modo da poterlo mangiare anche durante le amate battute di caccia. I cuochi imperiali introdussero così la panatura. Una bella storia che serve più che altro a dare un pizzico di nobiltà a un piatto popolare, nato per le strade, facile da trasportare per chi trascorreva la giornata in campagna. Per noi l’arancino è un piatto salato, ma ne esistono anche varianti dolci, con il cioccolato soprattutto. Anzi, secondo alcuni esperti il nostro piatto nacque proprio come dolce per celebrare la festa di Santa Lucia, il 13 dicembre. Il legame con la festività invernale sarebbe dovuto a un evento avvenuto nel 1646 quando, il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, giunse a Palermo una nave carica di grano che salvò la città dalla carestia. Per ricordare alle generazioni future quanto quel grano fosse prezioso nacque la tradizione di non consumare pasta e pane nella giornata del 13 dicembre e onorare la santa con dei particolari arancini dolci, preparati unendo zucchero e cacao al riso. Nella seconda metà dell’Ottocento l’arancino si impose sempre di più come piatto salato, anche perché nella ricetta entrò il pomodoro. In un ricettario della città di Noto risalente a fine Ottocento troviamo descritto il procedimento per cucinare le “polpette di riso alla siciliana”, preparate con riso condito con tuorlo d’uovo, sugo, formaggio e mollica di pane. Ogni polpetta veniva poi farcita con un ripieno di macinato, ancora sugo, burro e prezzemolo. Del 1931 è l’attestazione del Touring Club Italiano, che in una sua pubblicazione certificò come gli arancini fossero composti di riso, carne trita e caciocavallo e venissero venduti per le strade. Tutto oramai chiaro e definito dunque? Mica tanto, se pensiamo che soltanto in Trinacria esistono circa trenta versioni del piatto e che neppure sulla forma tutti sono d’accordo: nella Sicilia Orientale si predilige quella lievemente conica che ricorda il profilo dell’Etna, mentre nella zona occidentale dell’isola il tondo arancia è imprescindibile.

Favria, 13.12.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. Il Natale viene a insegnarci come trovare la gioia di donare felicità e la gioia di essere gentile. Felice  venerdì

Il pandoro.

Quando arriva il Natale, la scelta tra i dolci tipici si concentra spesso sul pandoro o sul panettone, due simboli del periodo festivo che dividono gli appassionati in divertenti schieramenti su quale sia il migliore. Ma il confronto con il panettone rappresenta solo una delle numerose sfide che questo lievitato ha affrontato nel corso della sua storia. Originario di Verona, questo dolce non è solo un piacere per il palato: è un viaggio attraverso miti, avvenimenti cruciali e trasformazioni creative. Ecco quindi la storia del pandoro, dolce festivo amato in Italia e non solo. Era il 14 ottobre 1894 e a Verona, un pasticcere, Domenico Melegatti, fece un passo audace nella storia della pasticceria italiana: ottenne il brevetto per il pandoro, una ricetta innovativa che avrebbe trasformato la visione di dolci natalizi. Questa bontà soffice era il risultato di una meticolosa ricerca e sperimentazione, mirata a creare un dessert che incarnasse lo spirito e la magia del Natale. Qualcuno ritiene che sia una derivazione del nadalin, un lievitato che risale alla metà del 1700, fatto con un impasto di pinoli mescolati con lo zucchero, “la pignocada”, e da granella di mandorle, elementi che non sono presenti nel pandoro. La somiglianza infatti era più fisica perché il nadalin aveva una forma a stella a otto punte, fatte a mano, in onore delle otto famiglie principali della città. Il fatto che nel 2012 il nadalin abbia ottenuto la De.Co (ovvero la Denominazione Comunale) sottolinea il suo valore culturale e storico per la città di Verona. C’è poi un’altra variante, che risale al 1790, realizzata nel monastero femminile di San Giuseppe e Fidenzio, dove sono stati trovati documenti scritti di un dolce soffice chiamato pan di Natale. Parallelamente a questi due, un altro dolce tipico di Verona che merita attenzione è l’offella, un “successore” del pandoro. Questa creazione, portata alla fama dalla storica pasticceria Perbellini, che aveva lavorato con Melegatti, è un altro gioiello della tradizione dolciaria veronese e si distingue per il suo stampo tondo e per le mandorle dolci tritate poste sul fondo, che in cottura creano una crosta caratteristica e deliziosa. Con il passare del tempo, l’offella si è unita a nadalin e pandoro come uno dei dolci natalizi tipici di Verona. Negli anni successivi alla dominazione austriaca, l’influenza su Verona toccò notevolmente anche la pasticceria. Vienna, infatti, era celebre per i suoi pani lievitati, come il famoso Kugelhupf e è possibile che, in questo periodo, anche la tradizione veronese abbia subito un’influenza, evolvendosi verso una lievitazione più lunga, fino ad arrivare alla classica forma che conosciamo oggi. La storia del pandoro è avvolta in un velo fatto di varie leggende stratificate e curiosità che rispecchiano la sua ricchezza storica e culturale. Tra queste, una delle più poetiche lo descrive come il “pane degli angeli”, un dolce così leggero e delicato da essere considerato degno solo di queste creature celesti. Risalendo alle origini del dolce, emerge la leggenda del “Pane de oro”, un pane lussuoso riservato alla nobiltà durante il Rinascimento: si dice che fosse talmente prezioso da essere arricchito con foglie d’oro commestibili, simbolo dell’opulenza e del lusso dell’epoca. Un’altra leggenda toccante narra che, in tempi antichi, i panettieri di Verona lo preparassero come dono per i meno fortunati durante il periodo natalizio. In questa storia, il dolce diventa un simbolo di generosità e speranza, un mezzo per portare gioia a chi ne aveva più bisogno. Infine, si dice che fosse il dolce prediletto nelle corti reali di tutta Europa. La sua esclusività e il gusto inconfondibile lo rendevano un regalo molto apprezzato, contribuendo a diffondere la sua fama oltre i confini italiani. Ma la storia del pandoro non è stata priva di ostacoli. Guerre e cambiamenti politici hanno avuto un impatto notevole sulla sua produzione: durante i periodi bellici, specialmente nelle due Guerre Mondiali, la difficoltà di ottenere ingredienti come farina, uova e burro, unita alle restrizioni economiche, ne ha ostacolato la produzione. Nonostante queste avversità, di dolce di Verona ha conservato il suo ruolo fondamentale nelle tradizioni italiane, diventando un simbolo di resilienza e speranza in momenti di difficoltà. La caratteristica forma a stella a otto punte non è solo un trionfo estetico, ma anche un simbolo ricco di significato: è stata infatti pensata per evocare l’immagine delle montagne innevate del Nord Italia, oltre a rappresentare, con le sue punte, la luce e la gioia del Natale.

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Favria, 14.12.2024   Giorgio Cortese

Buona giornata. A Natale Dio ci dona tutto se stesso attraverso il suo Figlio, l’Unico, che è tutta la sua gioia. Felice sabato

La Natalina.

Petali come gonne svolazzanti di soavi danzatrici, dai colori accesi, rossi, che ricordano le lucine dell’albero di Natale. E Natalina il soprannome con cui è chiamata una delle varietà della Schlumbergera, questo è il suo nome botanico,  particolarmente apprezzata nel periodo natalizio poiché è proprio in inverno che dai suoi rami iniziano a sbocciare grandi fiori di colore rosso intenso. Che insieme al verde delle foglie richiamano i tipici colori del Natale. Questa pianta è nota anche come  cactus di Natale o anche come  cactus del Ringraziamento. Il  suo nome scientifico deriva da Frédéric Schlumberger, un noto collezionista di piante succulente del XIX secolo, precisamente il nome fu scelto nel 1858 dal botanico francese Lemaire in onore di un collega, Frederic Schlumberger, che fu tra i primi collezionisti di cactus. Le prime Schlumbergera furono portate in Europa nel XIX secolo dai coltivatori di piante succulente e divennero rapidamente popolari come piante da appartamento a causa della loro insolita fioritura invernale. Nel corso del tempo, sono stati sviluppati diversi ibridi e varietà, ciascuno con caratteristiche floreali e di crescita leggermente diverse. La Natalina  è una pianta succulenta che in natura, nelle foreste sulle montagne brasiliane, cresce in modo epifita, cioè senza necessità di terra e aggrappata alle cortecce dei grandi alberi, negli incavi dei rami, o su altre piante utilizzate come semplice sostegno, senza danneggiarle o trarre nutrimento da loro; in altri casi crescono nelle crepe delle rocce. La parola epifita è composta da due parole di origine greca epí, sopra, e fita, da phytón, pianta. La pianta è composta da fusti piatti e carnosi, senza spine, di colore verde intenso. Dall’inverno e fino alla primavera sugli apici dei fusti sbocciano tanti grandi fiori penduli, simili a ballerine. Di solito sono rossi, ma ci sono varietà bianche o rosa salmone. La Schlumbergera, appartenente alle Cactaceae, è originaria delle foreste pluviali tropicali del Brasile ma vive anche nelle fessure delle rocce costiere affacciate sull’Atlantico. Oltre al Brasile crescono anche in altre zone ma sempre in condizioni di umidità relativamente elevata e di luce diffusa, è uno dei pochi cactus che non vive in ambienti aridi. Il suo portamento è cespuglioso e crescendo forma graziose cascate ricadenti che una volta fiorite creano uno spettacolo davvero unico. Quando curate adeguatamente, le Nataline possono vivere a lungo e continuare a fiorire per molti anni. La loro longevità è tale che alcune piante possono persino passare da una generazione all’altra come eredità di famiglia. La Natalina, come abbiamo visto, è conosciuta come cactus di Natale o cactus del Ringraziamento, ha ispirato alcune leggende e tradizioni popolari nel corso degli anni. Queste “storie” non sono basate su fatti storici o scientifici, ma aggiungono indubbiamente un tocco di fascino alla pianta e alla sua associazione con le festività facendola diventare un dono natalizio pieno di significati positivi. Una delle storie più conosciute è la seguente. Un ragazzo, che viveva nella foresta brasiliana calda e soffocante, pregava affinché lo spirito del Natale portasse un po’ di freschezza o almeno umidità. Per settimane non c’è stato alcun segno divino, ma il giorno di Natale, il ragazzo si svegliò in una foresta piena di migliaia di fiori cadenti come campane di Natale. La Natalina, che cresce sugli alberi, era fiorita durante la notte. Il ragazzo capì che quello era stato il dono di Dio per lui. Da questa leggenda è nata anche la tradizione del regalo di Natale: donare una Natalina come regalo è considerato un segno di amore nel senso più ampio del termine. La Natalina è considerata una pianta che porta grande fortuna, prosperità e rinascita.  Altre credenze popolari considerano semplicemente la pianta come un segno di speranza e rinascita, un augurio di rinnovamento, verso momenti migliori e più gioiosi; tale simbolismo, presente nel linguaggio dei fiori, è nato dalla caratteristica della Natalina di fiorire d’inverno quando la maggioranza delle piante sono in stato di riposo. Pertanto, quale miglior regalo per il Natale che augurare speranza e rinascita in qualsiasi campo della vita! Queste leggende e tradizioni, pur non avendo una base scientifica, aggiungono un aspetto emozionante e spirituale alla Natalina e contribuiscono a renderla una pianta popolare durante le festività. Ed eccola la Natalina che mi saluta ogni giorno con i suoi fiori rosso acceso simili a ballerini e per il contrasto che creano con il verde dei fusti. I rossi fiori della Natalina mi ricordano che la speranza  che non è ottimismo. La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno.

Favria, 15.12.2024  Giorgio Cortese

Buona giornata. L’unica vera persona cieca durante il periodo natalizio è colui che non ha il Natale nel cuore. Felice

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Dona il sangue dona la vita! Ricorda che una  donazione di sangue si può salvare la vita di tre persone. Il potere di salvare la vita l’abbiamo nel sangue. Vieni a donare il sangue, vieni a donare a Favria MARTEDI’ 31 DICEMBRE, cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Abbiamo bisogno anche di Te. Attenzione, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare e portare sempre dietro documento identità. a Grazie per la vostra collaborazione. Per info, Cell. 3331714827. Ricordo i requisiti minimi per donare: età compresa tra i 18 e i 60 per la prima volta, poi dai 65 a 70 anni, l’idoneità a donare va valutata dal medico. Grazie se fate passa parola e divulgate il messaggio.



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