Dal processo di Capo d’Orlando alla lotta antiracket, l’ex sostituto di Messina Maurizio Salamone: “Un traffico di droga allarmante”

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Il sostituto procuratore generale di Messina Maurizio Salamone ha lasciato la magistratura dal primo dicembre scorso. Dopo una vita, sono 41 anni, passata a lavorare sia come giudicante che requirente tra la Sicilia e la Calabria.

Cominciamo guardando indietro, da quel processo ormai diventato storico al racket dei Nebrodi. Era se non ricordo male il novembre del 1991 per l’atto finale del dibattimento di primo grado, eravamo all’indomani dell’assassinio di Libero Grassi a Palermo, e per la prima volta in Italia con l’Acio i commercianti sottoposti al “pizzo” dai gruppi mafiosi tortoriciani erano parte civile in un procedimento penale. Lei era seduto sul banco dei pm insieme al collega Giuseppe Santalucia, che ora è presidente nazionale dell’Anm. Che ricordi ha di quella stagione? Adesso il movimento antiracket è indubbio che segni una battuta d’arresto nel nostro Paese…
«Ho istruito il processo contro i clan tortoriciani facendo tesoro del bagaglio professionale acquisito a Palmi dove, come giudice, avevo celebrato svariati processi nei confronti di esponenti delle ’ndrine della piana di Gioia Tauro, ed in particolare il processo c.d. alla mafia delle “tre province”, così chiamato perché vedeva alla sbarra il gotha ’ndranghetista di Reggio, Cosenza e Catanzaro. Tuttavia il processo ai clan di Tortrici presentava una peculiarità rilevantissima: la denuncia dei coraggiosi commercianti orlandini nei confronti degli estortori. La presenza di una accusa, decisa e puntuale, verso dei mafiosi poneva, in diritto, un problema : i requisiti dell’omertà e della forza di intimidazione, previsti dall’art. 416 bis c.p., potevano risultare insussistenti. Oggi una siffatta questione risulta superata e potrebbe apparire marginale ma, nel 1991, induceva delle plausibili riserve. La giurisprudenza era ancora attestata su posizioni meno elastiche, senza omettere che nel distretto di Messina fino a quel momento non si era mai pervenuti a decisioni che individuassero consorterie mafiose nel territorio cittadino e men che meno nel circondario pattese. Io ed il collega Santalucia comprendevamo che contestare il reato associativo mafioso e vederlo escluso o riqualificato in associazione semplice avrebbe cagionato il fallimento della coraggiosa iniziativa dei commercianti, frustrando un impulso sociale che, invece, doveva servire da apripista nei luoghi soggiogati dalla protervia mafiosa. E deve darsi atto ai giudici di quel Tribunale, i colleghi Coppolino, Spadaro e Celi, di avere saputo cogliere le trasformazioni criminogene ed una mutata sensibilità della classe imprenditoriale rispetto al fenomeno mafioso ed estortivo. Tanto permise di scrivere una pagina di giurisprudenza moderna ed ebbe il merito di far poi approvare la Legge istitutiva dei ristori alle vittime di delitti mafiosi. A distanza di oltre trent’anni i movimenti antiracket hanno visto scemare la loro forza nel contrasto alla mafia ma questo rappresenta il portato delle continue trasformazioni di quel fenomeno. Oggi l’estorsione costituisce forma rischiosissima di lucro illecito e la si relega a momento marginale. Le forme di arricchimento sono mutate, i maggiori guadagni illegali provengono dallo sfruttamento illegale delle risorse pubbliche poiché là le risorse sono immense. La mafia ha mutato metodo, cerca la sponda politico-amministrativa senza ricorrere a coartazioni ma alleanze, contiguità, disattenzione. È il grande tema posto dal notissimo processo noto come “mafia-capitale”. La mafia, ancora, sfrutta una legislazione societaria e fallimentare, quest’ultima recentemente oggetto di una riforma legislativa radicale ed epocale, che consente mascheramenti, aggiustamenti di ogni sorta, ed azzardate operazioni. A tacere poi delle operazioni telematiche di trasferimenti di capitali. In questo nuovo scenario l’estorsione è oggi quello che la guardianìa era negli anni 60: tipologia rozza di un sistema che doveva evolversi verso forme criminose al passo con i tempi. Espressione mafiosa superata e foriera di locupetazioni modestissime».

Cosa è cambiato in tutto questo tempo nell’amministrazione della Giustizia in questo Palazzo, nulla o tanto? I tempi di trattazione sono almeno migliorati?
«L’amministrazione della Giustizia soffre, in Italia, una continua modifica spesso non apportatrice di migliorata efficienza. Da quando iniziai la mia attività ho assistito, sempre, ad una intensa iperproduzione normativa, che in altri Stati non si registra. La causa non è solo l’esigenza di modernizzazione; sovente il risultato cui si perviene è una complicazione del sistema ispirato da un malcelato e dannoso garantismo. Avviene così che i tempi si dilatano, ogni fase processuale deve superare ostacoli e paratie come un concorso ippico di massima difficoltà. Le conseguenze sono da tutti individuabili. Massive percentuali di reati cadono in prescrizione, il sistema risulta antieconomico, si sottraggono energie rilevantissime a settori ed intraprese che potrebbero utilizzarle. E quando si cerca di semplificare si aumenta a dismisura il novero dei reati perseguibili a querela. Questo uno degli aspetti caratterizzanti della c.d. Riforma Cartabia in sede penale. Alla fin fine un altro ostacolo, uno fra i tanti escogitati. La trattazione dei giudizi ha registrato negli ultimi anni innegabili accelerazioni, ma non già per le riforme, ad eccezione del rito cartolare in appello introdotto dal Covid, bensì per la capacità organizzativa dei capi degli Uffici e la maggiore produttività di una magistratura consapevole delle proprie responsabilità verso la gente. Se questa viene meno, i tempi tornano a dilatarsi».

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Ha visto passare tra le sue carte praticamente migliaia di indagati, imputati, condannati, assolti. Come si sopporta questo “peso”?
«Fare il magistrato impone di individuare la sottile linea di demarcazione posta tra l’umanità dell’uomo che giudica un suo simile e la pacatezza imposta dal dubbio che deve assistere ogni decisione. Con il tempo la professionalità del giudicare, in senso lato dico, può affievolire la ricerca di quel confine. Ma ciò non è un male, anzi rappresenta un arricchimento perché dà il dovuto distacco, elemento imprescindibile della giurisdizione. E distacco significa anche solitudine, come insegnava Gesualdo Bufalino. Ma il giudice deve essere solo, deve essere disposto a pagare questo prezzo. I tempi odierni hanno visto esempi contrari a tale imprescindibile aspetto e questo ha cagionato danni d’immagine ad una categoria che rimane, nella massima parte, assertrice di tale principio. Alla fine però questo peso si tramuta in privilegio, quello della indipendenza da ogni sinuosa sirena che avrebbe voluto ammaliarti con il suo canto. Avere nella indipendenza la mia stella polare mi ha consentito di affrontare, con serenità, anche i processi più rischiosi perché l’indipendenza fa guadagnare il rispetto di tutte le altre parti della giurisdizione».

Quando era gip, e poi in seguito con le altre funzioni, ha affrontato il fenomeno mafioso nell’intera provincia di Messina. Secondo lei in che fase siamo nella lotta alla mafia dalle nostre parti? E cosa pensa delle polemiche su mafia e antimafia?
«Ho lavorato a Messina, Patti e Mistretta, ma non posso sottacere le belle esperienze in Calabria dove ho esercitato per quasi la metà dei miei 41 anni in magistratura. Tranne brevi periodi mi sono dedicato al settore penale ed ho celebrato, da giudicante o requirente, moltissimi processi di criminalità organizzata. Il fenomeno, almeno in città, mostra cambiamenti. Il venir meno delle figure più pericolose non ha visto un ricambio generazionale e l’imporsi di soggetti di pari spessore. Le condanne dei personaggi degli anni ’80 e ’90 hanno fatto uscire di scena quegli apparati lasciando spazio ad una criminalità più incentrata sul traffico degli stupefacenti. Come ho detto nel corso della inaugurazione dell’Anno giudiziario del 2023 a Messina ed anche in provincia la piaga della droga ha proporzioni più che allarmanti. È un settore che apporta guadagni enormi , permette un larghissimo proselitismo criminale, trova nella vicina Calabria una fonte di approvvigionamento illimitato. A mio personale avviso le risposte giudiziarie in termini di quantificazione delle condanne non hanno colto la rilevanza di un fenomeno pernicioso cui doveva tribuirsi maggiore rigore sanzionatorio. In un contesto che vede assoluta protagonista la droga, la mafia messinese, salva qualche eccezione, si è indebolita. Mentre a Barcellona le incessanti indagini della nostra Procura hanno inferto costanti colpi ad un sistema molto forte ma via via decimato dalle condanne. La costruzione del Ponte costituisce una impegnativa sfida che aprirà scenari molto intricati ma gli organi preposti non sono impreparati, il lavoro è già iniziato e sono convinto che produrrà risultati eccellenti seppur a costo di un impegno difficile e massacrante. Una sfida di tali proporzioni sarà un banco di prova importante per l’Antimafia cittadina; coloro che contrastano l’idea del Ponte, come anche quelli che, invece, lo vogliono realizzato, e in tempi ragionevoli, dovranno tutti unirsi per osservare, sorvegliare, capire, denunciare. La città tutta, in ogni sua componente, è chiamata a presidiare una situazione che si pone come terreno di coltura fertile per ogni genere di malaffare mafioso, politico, amministrativo. Se Messina saprà fare Antimafia darà un contributo ben maggiore di quello che nel 1991 diedero i commercianti orlandini, ma si porrà nella scia di quella epopea che mutò certi orizzonti».

Un’ultima cosa, che sensazioni ha prima di andare via, quando si cambia strada ci si volta sempre indietro, ci sono rimpianti?
«Lascio la magistratura con molta emozione poiché mi ha umanamente e intellettualmente dato tanto. Mi ha insegnato che c’è un tempo per ogni azione, ora cautela e pacatezza, ora coraggio, forza nell’osare, credere nelle proprie idee e tenacia nell’affermarle, saper deflettere accorgendosi di avere sbagliato. Ho incontrato tanta brutta gente ma sono stato onorato della conoscenza di moltissime persone meravigliose, grandi o piccole, ma splendide. Dismetto la toga consapevole che una stagione della mia vita è finita e che, come qualcuno ha detto, non bisogna vivere nel passato ma guardare ad esso per quel che possa ancora insegnarti. Certamente ho rimpianti e tanti. I processi per reati importanti in cui le responsabilità non si sono potute dimostrare, indagini svolte dovendo fronteggiare ostacoli ciclopici, attività non compiute per scarsezza di mezzi e personale. Il rimpianto maggiore è per un rapporto fra la politica e la magistratura che continua a registrare difficoltà insormontabili, per una inadeguata legittimazione popolare della magistratura frutto di scellerati e mirati attacchi esterni, l’incapacità di un governo della magistratura basato su obiettività, reale meritocrazia ed abbandono di derive burocratizzanti che sempre più tendono ad imporsi nella giurisdizione».



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